25 luglio 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 25 LUGLIO 2005
«Sa come diceva Sun Tzu nell’Arte della guerra? ”Il soldato invincibile è quello che si sa già morto”». [1]
Ce l’ha coi kamikaze? [1]
«Quelli giapponesi prendevano il nome dal ”vento divino” che aveva permesso ai loro avi di sconfiggere i mongoli tra il 1274 e il 1281. La parola kamikaze in realtà era usata solo dai giapponesi nati in America che combattevano con gli statunitensi, a Tokyo li chiamavano ”tokkotai”. C’erano quelli che si lanciavano con gli aerei contro le navi Usa, la maggior parte, ma anche chi guidava barche esplosive e pure uomini-proiettile che si lanciavano contro i tank imbottiti di esplosivo». [1]
Quanti furono a immolarsi? [1]
«5-6 mila, la maggior parte fra i 18 e i 25 anni. Qualcuno anche meno. Dai loro commilitoni non erano ben visti, con la loro aura di straordinarietà e i privilegi. C’era l’idea, ispirata dallo shintoismo, che sarebbero tutti risorti come eroi. La popolazione civile provò per loro una crescente ammirazione». [1]
Erano contenti di morire in quel modo? [2]
«Per nulla. La storica nippo-americana Emiko Ohnuki-Tierney ha consultato gli archivi dell’ex scuola imperiale per piloti, lettere e diari scritti dai giovani prima di partire per la loro ultima missione. Scelti tra l’élite universitaria, erano imbevuti di cultura europea, strappati allo studio e destinati a caserme dirette da istruttori tedeschi. Venivano privilegiati i laureandi in materie umanistiche, ritenuti meno essenziali allo sforzo bellico. Tra loro, alcuni si erano convertiti al cristianesimo, altri erano marxisti. Obbedivano agli ordini per senso del dovere, non per convinzione. Scriveva nel suo diario Sasaki Hachiro, morto a 22 anni il 14 aprile 1945: ”In un clima di prevaricazione e terrore ci riunirono in assemblea chiedendo chi di noi si offrisse volontario per le missioni tokkotai. Fu tutt’altro che una libera scelta”. La religione c’entrava poco, era il codice d’onore che gli impediva di disubbidire gli ordini. Pensi che prima di morire leggevano classici occidentali: Aristotele, Zenone lo Stoico, l’americano Emerson». [2]
Tutta un’altra storia rispetto a quelli di oggi. [3]
«Prenda quelli in Iraq. Aparisim Ghosh di ”Time” ne ha intervistato uno di vent’anni in lista d’attesa per farsi saltare in aria. Viene da Falluja, dice che all’inizio era contento che gli americani avessero cacciato Saddam, ma che sperava si togliessero subito dai piedi. Si è unito ai terroristi nell’aprile 2003, dopo che i marines avevano sparato ad alcuni dimostranti riuniti davanti a una scuola uccidendone dodici». [3]
Immagino che lui non si definisca un terrorista. [3]
«Invece si sbaglia. Gliel’ha detto lui stesso a Ghosh: ”Scrivilo: ammetto di essere un terrorista. Il Corano dice che è dovere di ogni musulmano diffondere il terrore tra le fila nemiche, così essere un terrorista fa di me un buon musulmano”. Per questo dice che il giorno che ha saputo di essere stato accettato per una delle prossime missioni suicide è stato il più bello della sua vita». [3]
convinto che il martirio gli aprirà le porte del paradiso? [3]
«Di più. Siccome ogni martire può portare con sé 70 persone, dice che sta mettendo giù la lista. E che ha un problema: lui 70 persone manco le conosce!». [3]
Delle vittime civili non si preoccupa? [3[
«Dice che prega sempre affinché il suo attentato non ne causi, ma che, nel caso ve ne fossero, appena arrivati in Paradiso sarà Allah stesso a chieder loro di perdonarlo». [3]
vero che prima delle missioni si ubriacano per farsi coraggio? [3]
«Ghosh gliel’ha chiesto, e sa quello che gli ha risposto? Che è un’assurdità, perché nessun kamikaze accetterebbe mai l’idea di presentarsi sbronzo davanti ad Allah... Piuttosto, ha ammesso che a volte si fanno legare al volante dell’auto per essere sicuri di non scappare all’ultimo momento, consci che quando ci sarà da farsi esplodere qualche dubbio potrebbe venirgli». [3]
Quelli di Londra sono diversi? [4]
«La settimana scorsa ”Daily Mirror” e ”Sun” hanno pubblicato una foto in cui si vedono due kamikaze del 7 luglio. stata scattata il 4 giugno al National Whitewater Rafting Centre di Canofian Tryweryn, nel Galles del Nord, sono su una barca pronti a gettarsi giù da un fiume per divertimento: Mohammed Sidique Khan, che s’è fatto saltare in aria a Edgware Road, fa il segno della vittoria, Shehzad Tanweer, autore della strage di Aldgate, dove è morta Benedetta Ciaccia, sta a prua piegato in avanti. A divertirsi sui fiumi del Galles non si va per dovere». [4]
Sembra più roba da psichiatri che da investigatori. [4]
«In Kamikaze. Made in Europe Magdi Allam racconta la storia di Asif e Omar Khan, 21 e 27 anni, che il 30 aprile 2003 si fecero esplodere in un caffé di Tel Aviv. Venivano da Derby, 240 chilometri a nord di Londra. ”Per noi la vita si è fatta più cupa, la nostra identità di musulmani sembra rappresentare una frontiera invalicabile tra noi e il resto del mondo, tanta è oggi la paura”, fu il loro ultimo messaggio. Si trattò di una grossa novità: fino a quel giorno, in Hamas militavano solo i palestinesi. I due martiri che, poco prima della morte, sostengono di volersi vendicare ”degli ebrei e dei crociati”, hanno subito un lavaggio del cervello, sono stati plagiati nelle moschee britanniche. Allam spiega che oggi è l’Occidente la vera roccaforte del radicalismo islamico che produce aspiranti mujahidin, migliaia di combattenti che, vivendo crisi esistenziali a Londra, Parigi, New York, sono andati a combattere la guerra santa in Afghanistan, Cecenia, Kashmir, Bosnia, Kosovo, Iraq». [5]
Ma di che gente stiamo parlando? [6]
«Khaled Fouad spiega in Lettera a un kamikaze che oggi il musulmano che si getta nell’omicidio-suicidio sogna una grandezza perduta dell’Islam, cerca ”la fragranza di un passato che non tornerà più”. [6] Tra i turchi in Germania, gli algerini in Francia, i pachistani in Inghilterra, è inutile cercare una sola causa che determini la conversione alla jihad. Tuttavia, esistono alcuni elementi comuni. Molti sono figli o nipoti di immigranti, alcuni dei quali cresciuti stipati in quelle che Robert Leiken del Nixon Centre di Washington chiama ”colonie interne”, ghetti isolati rispetto alla cultura della loro nuova patria. La maggior parte non ha nemmeno 30 anni, alcuni hanno ricevuto una buona istruzione. [7] Il sociologo Diego Gambetta spiega in Making Sense of Suicide Missions che in genere si tratta di persone di classe media». [8]
Non i ”dannati della terra”, insomma. [8]
«Non i diseredati, non coloro, per dirla con Marx, che avrebbero da perdere soltanto le loro catene. Semmai, come nota Stephen Holmes analizzando gli attentatori dell’11 settembre, sono degli sradicati che non si sentono a loro agio nei Paesi d’origine, di cui colgono la corruzione dei costumi, ma non riescono a inserirsi nel mondo occidentale, che, comunque, odiano, e sono consapevoli che, nonostante il loro livello d’istruzione, rischiano una seria perdita di status. La motivazione religiosa sembra non essere il fattore scatenante: molti dei kamikaze sono secolarizzati e semmai usano il richiamo alla religione come elemento identitario proprio delle comunità delle quali desiderano l’approvazione. [8] Spesso si sono allontanati dalla famiglia: alcuni possono essere diventati piccoli delinquenti o essersi abbandonati a una passione non tipicamente islamica per l’alcool e le donne. Poi, qualcosa li spinge verso la religione e a prestare ascolto a predicatori estremisti che predicano l’utopia della sharja mondiale». [7]
Sempre più spesso si sente parlare di kamikaze donne. [9]
«I primi ad usare le donne-bomba sono stati i gruppi libanesi dopo l’82. Quindi li hanno imitati i palestinesi, i ceceni, i curdi. Il Pkk ha utilizzato delle militanti per colpire parate militari e personalità nel Sud Est della Turchia. Giovani ma anche donne mature. Il coinvolgimento delle donne è cresciuto perché presenta vantaggi operativi in quanto la kamikaze supera più facilmente i controlli, rappresenta un successo propagandistico, ottiene maggiore copertura da parte dei media». [9]
Le donne si fanno kamikaze per gli stessi motivi degli uomini? [10]
«Come spiega Barbara Victor in Femmes Kamikaze la motivazione personale sembra uno strano miscuglio di resistenza all’occupazione e reazione contro il machismo della società locale. [10] Wafa Idriss, la prima donna kamikaze palestinese, era stata ripudiata dal marito per sterilità e costretta a tornare disonorata nella propria famiglia: il sacrificio supremo le sembrò l’unico modo di lavare l’infamia. La tamil Dhanui, che assassinò Rajiv Gandhi, voleva farsi perdonare un figlio illegittimo. La palestinese Fatma Al Said confessò di aver ucciso due soldati israeliani per provare alla famiglia che valeva quanto i fratelli, i quali avevano la possibilità di andare all’università mentre a lei era proibito». [11]
Come è che il kamikaze è diventato l’arma preferita dei terroristi? [9]
«La moltiplicazione di questo tipo di attentati trova innanzitutto spiegazione nel fallimento delle altre forme terroristiche. Pur rappresentando l’1% degli attentati palestinesi, gli attacchi suicidi hanno provocato, tra il 2000 e il 2002, il 44% delle vittime. L’attentato suicida costituisce più che altro un’opzione facile, perché non ha bisogno di piani di fuga, e in caso di fallimento il terrorista a volte è pronto a suicidarsi come fanno i Tamil, che portano con sé una capsula di cianuro. [11] Secondo uno studio della Rand Corporation, l’attentato suicida provoca quattro volte più vittime degli attacchi terroristici classici. Il costo dell’organizzazione è minimo, circa 150 dollari, secondo calcoli israeliani. Il rapporto costo organizzativo/danni degli attentati dell’11 settembre 2001 è impressionante: con una spesa inferiore a un milione di dollari hanno inflitto agli Stati Uniti perdite economiche per 40 miliardi». [12]
I kamikaze sono l’unica arma efficace in mano ai terroristi? [11]
«Il 21 agosto 2001 lo sceicco Abdallah Sahmi, leader della Jihad islamica nella striscia di Gaza, spiegò al telegiornale dell’Abc che quella era la loro unica opzione: ”Non abbiamo bombe, carri armati, missili, aerei, elicotteri”, disse. [11] Per i mandanti l’attentatore suicida è come un missile intelligente che arriva quasi sempre sul bersaglio. Lo prepari in modo sommario, gli dai la carica e lo mandi a morire contro il nemico. L’ultima evoluzione è quella apparsa negli scorsi mesi in Iraq: l’attentatore sale su una vettura imbottita d’esplosivo e gira per le vie di una città alla ricerca di un obiettivo. lui a decidere quando e dove farsi saltare per aria. Nella speranza di tenere lontani i kamikaze, gli iracheni hanno preso a scrivere sulla carrozzeria delle loro vetture versetti del Corano». [9]
Dobbiamo fare lo stesso con le nostre metropolitane? [13]
«Amir Taheri, un esperto di terrorismo, dice che i kamikaze non sono degli esseri umani con cui si può discutere, negoziare o scendere a compromessi. Secondo lui l’unica soluzione è risalire alle ”fabbriche” che costruiscono i terroristi-suicidi: dobbiamo trovarle, attaccarle, distruggerle, anche se si tratta solamente di centrali ideologiche e culturali. In tempo di guerra si attaccano i luoghi dove vengono costruiti missili o bombe e qui, dice Taheri, la situazione è simile. Ma per noi è difficile pensare in questo modo perché la tendenza naturale delle società occidentali è di andare alla ricerca del dialogo e del compromesso». [13]
Potremmo almeno imprigionare gli imam che usano parole provocatorie. [7]
«Molti, ad esempio l’’Economist”, pensano che sarebbe uno sbaglio: la lotta contro i jihadi, dicono, è la lotta della tolleranza europea contro la chiusura mentale del fanatismo. [7] Ma qualcosa bisogna fare. Sul ”New York Times” Thomas Friedman ha chiesto che il Dipartimento di Stato Usa pubblichi un rapporto trimestrale, analogo a quello sui diritti umani, per denunciare ”i leader religiosi e gli scrittori che incitano alla violenza”. Per Friedman ”le parole contano”. Dunque portare ”alla luce del sole i mercanti d’odio è più importante di quanto si pensi”. Perché ”coloro che diffondono l’odio non amano essere esposti... Essi credono di parlare solo per quelli come loro. Quando le loro parole sono individuate, spesso si sentono in dovere di ritrattarle”». [14]