La Stampa 21/07/2005, pag.25 Michela Tamburrino, 21 luglio 2005
Scandalosa Colette madre perfida perché spaventata. La Stampa 21/07/2005. Come può essere una madre che chiama sua figlia col suo stesso cognome quasi ad annullarne l’identità? Come può essere una madre famosa che predilige se stessa alla propria creatura e che non si stanca di paragonare la sua perfezione alla di lei goffaggine? Come può essere una madre che chiude la piccola in vari collegi a spasso per il mondo? Troppo facile rispondere "Perfida, amorale, senza il benché minimo senso della maternità"
Scandalosa Colette madre perfida perché spaventata. La Stampa 21/07/2005. Come può essere una madre che chiama sua figlia col suo stesso cognome quasi ad annullarne l’identità? Come può essere una madre famosa che predilige se stessa alla propria creatura e che non si stanca di paragonare la sua perfezione alla di lei goffaggine? Come può essere una madre che chiude la piccola in vari collegi a spasso per il mondo? Troppo facile rispondere "Perfida, amorale, senza il benché minimo senso della maternità". Troppo facile lamentarsene, troppo facile scrivere missive strappacuore complice la tenera età, zeppe di "mi manchi", e al contempo di "mandami i soldi". Perché, in fondo, questo è il libro Colette ma chérie, sottotitolo Lettere con la figlia, pubblicato da Donzelli (427 pagine, 24,90 euro). Un epistolario che copre l’arco di una vita, dal 1916 al 1953, intercorso tra Sidonie-Gabrielle Colette, romanziera, attrice, ballerina, trasgressiva e mondanissima, e la figlia nata dal matrimonio con lo scrittore De Jouvenel e chiamata appunto col proprio cognome, Colette. La madre si rammaricava di quella nascita: "La bambina è arrivata tardi, avevo quarant’anni. Mi ricordo di aver accolto la certezza della sua presenza con una calcolata diffidenza, tacendola. Temevo la mia possibile inadeguatezza ad amare". Dalle lettere, tutto traspare, la leggerezza della scrittrice che rifugge i luoghi comuni, la morale comune, la mediocrità comune e l’astio crescente della figlia che dopo aver bramato affetto inutilmente, allora lo disprezza. Fulminante la risposta che costei, oramai alle soglie della vecchiaia, diede a chi le chiese: "Che cosa significa avere una madre così celebre?" e lei senza incertezze: "Ci vuole tutta una vita per riprendersi". Da piccola desiderava di essere stata partorita in altro contesto tanto la disperazione del suo stato la attanagliava. Da sue annotazioni personali: " al liceo Saint-Germain che cominciai a rendermi conto che non appartenevo ai miei genitori. In capo a qualche mese cominciai a sognare di poter appartenere ad altri. A genitori come quelli che avevano le mie compagne, quelli delle altre che se dovevano venire a trovarle il giovedì o la domenica, venivano. Senza dubbio quando chiedevo di essere ebrea, era un modo educato per suggerire che qualcuno mi affidasse a una di quelle famiglie ebree dove si trovava tanto calore". La grande Colette fuggiva, la piccola Colette la rincorreva. Così, fino a quando la grande Colette non invecchia e la piccola Colette non cresce. Allora i ruoli si invertono, la vecchia teme la morte e la solitudine, la giovane non può dimenticare i torti subiti e la punisce nell’indifferenza. Una tipica reazione che si ritrova in tanti altri rapporti difficili madre-figlia che invariabilmente finiscono per diventare dolente biografia, invariabilmente scritta dalle figlie mai pacate, in questo caso, dalla nipote. Il riferimento al libro e poi film Mammina cara è d’obbligo, scritto da Chistina la figlia adottiva della diva hollywoodiana Joan Crawford, veleno contro la madre dispotica e pazza interpretata nella trasposizione cinematografica da Faye Dunaway. E spingendosi un po’ più oltre, ecco Lasciami andare madre di Helga Schnaider, atto d’accusa violentissimo contro la sua mutti SS in un campo di concentramento. Madri assenti, o anche perfide, che da vecchie s’addolciscono ma che da giovani diventano simpatiche proprio in virtù dell’odio tedioso delle figlie. Personaggi, queste, che non pretendono amore e lo subiscono con indifferenza. Michela Tamburrino