Varie, 20 luglio 2005
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Westmoreland William
• Childs Spartanburg County (Stati Uniti) 26 marzo 1914, Bishop Gadsden (Stati Uniti) il 19 luglio 2005. Generale • «[...] il comandante della guerra del Vietnam dal ”64 al ”68, il cultore di Napoleone che spaccò l’America in due e divenne il simbolo della più grave sconfitta della storia americana assieme al ministro della Difesa Robert McNamara. Osannato sulla copertina di ”Time” come ”Uomo dell’anno” nel ”65, ma insultato più tardi dai pacifisti, Westmoreland venne definito dallo storico kennediano Arthur Schlesinger ”il nostro più disastroso generale dai tempi di Custer”, spazzato via con il suo reggimento da Toro Seduto. Di Westmoreland il generale nordvietnamita Vo Nguyen Giap, il suo vincitore, disse: ”Era un soldato istruito che aveva letto molti testi militari. Ma sbagliò a chiedere altri 200.000 uomini dopo la nostra offensiva del Tet. Ne avesse chiesti 400.000, non avrebbe fatto alcuna differenza”. Nel ”68 l’offensiva del Tet, il Capodanno vietnamita, frantumò la fiducia dell’opinione pubblica Usa e segnò l’inizio della fine. Solo dieci giorni prima, Westmoreland aveva pronosticato il trionfo: ”Vediamo la luce alla fine del tunnel”. [...] Con le sue valorose e brillanti imprese nella Seconda guerra mondiale e in quella di Corea, inizialmente il generale sembrò agli americani un altro MacArthur, il vincitore del Giappone nel ”45. E la sua strategia del ”body count”, la conta dei cadaveri, parve destinata al successo: Westmoreland, che in 4 anni da 20.000 sarebbe giunto a 500.000 soldati, cercò di decimare lo sfuggente nemico con massicci blitz sul suo terreno, ”portandogli” dichiarò ”il conflitto in casa”. Dai bombardieri agli omicidi mirati della Cia, dagli elicotteri ai defolianti - veleni che avrebbero colpito anche il figlio da lui mandato in prima linea - il generale impiegò ogni mezzo a sua disposizione. Ma la richiesta di altri 200.000 uomini dopo lo choc del Tet, ”per stanare i nordvietnamiti e i guerriglieri Vietcong anche in Laos e in Cambogia” e il timore che la Cina intervenisse nella guerra indussero il presidente Johnson a richiamarlo a Washintgon e nominarlo capo di Stato maggiore dell’esercito. Esiliato in patria, ignorato dal successore di Johnson, il presidente Nixon, Westmoreland si dimise nel ”72, pochi mesi prima della pace negoziata dal segretario di Stato Henry Kissinger. Come in un dramma shakespeariano, assistette impotente alle proteste popolari contro la guerra, al vilipendio dei suoi soldati e al ripudio della sua strategia. Ma non ammise la disfatta, proclamò, anzi, vittoria: ”Il nostro obiettivo era di fermare l’avanzata comunista nel Sudest asiatico, di evitare l’effetto domino - sostenne nel 1991, anni dopo - e ci riuscimmo. Oggi il Vietnam è un Paese isolato, retto da vecchi, è una minaccia solo per se stesso”. Per un decennio la sua vita fu un calvario. Nell’82 Westmoreland querelò la tv Cbs che lo aveva accusato di aver nascosto la forza del nemico per poter vantare successi, ma si ritirò nel corso del processo. E, quello stesso anno, il presidente Reagan prese le sue difese, invitandolo all’inaugurazione del monumento ai caduti nel Vietnam. Per il generale fu una sorta di riscatto, la chiusura del suo capitolo più buio. Da quel momento, si dedicò ai reduci, che accorsero alle sue conferenze, tributandogli gli onori che prima gli erano stati negati. Oggi al Pentagono, Westmoreland è di nuovo ricordato come uno dei migliori soldati dello scorso secolo. Il primo all’Accademia militare di West Point nel ”36. Eroe della Seconda guerra mondiale: in Africa contro il maresciallo Rommel, in Sicilia, allo sbarco a Utah Beach in Normandia. L’uomo che conquistò il Ponte di Remagen sul Reno nel marzo del ”45 e resistette per due settimane alla controffensiva tedesca, affrettando così la fine del conflitto; il più giovane generale del suo tempo, 42 anni; il direttore di West Point nel ”60. Una stella offuscata dal Vietnam, come la stella MacArthur dalla Corea, 25 anni prima» (Ennio Caretto, ”Corriere della Sera” 20/7/2005). «Nel 1982, dopo aver guidato la marcia di migliaia di veterani del Vietnam per l’inaugurazione del memorial di Washington, il generale in pensione William C. Westmoreland - che nel paese del sudest asiatico aveva comandato le truppe americane dal 1964 al 1968 - disse semplicemente: ”Era il mio destino servire come comandante nella guerra più impopolare che l’America abbia mai combattuto”. Impopolare, non persa. Westmoreland [...] non ha mai accettato la sconfitta dei marines nelle risaie del Vietnam del Sud. Anche dopo che la bandiera americana venne ammainata dall’ambasciata di Saigon - con le immagini degli elicotteri che portavano via in fretta e furia generali, funzionari, famiglie vere o presunte, immagini ormai storiche che avrebbero fatto il giro del mondo per la felicità dei milioni di pacifisti e di antiamericani che avevano visto in quella guerra lo scontro finale tra il bene e il male - ”Wes” ripeteva a ogni intervista: ”Militarmente in Vietnam non abbiamo perso. La verità è che il nostro paese non è riuscito a mantenere gli impegni presi con il Vietnam del Sud, ma abbiamo impedito che scattasse un effetto domino nella regione. Il comunismo non è avanzato, l’obiettivo strategico è stato centrato”. Quello che divenne il militare più vituperato nella storia recente degli Stati Uniti - lo storico Arthur M. Schlesinger lo definì impietosamente ”il nostro generale più disastroso dai tempi di Custer” - aveva avuto una brillantissima carriera: primo nel suo corso all’accademia militare di West Point, eroe di guerra durante il secondo conflitto mondiale e in Corea, nel 1964 venne chiamato dall’allora ministro della Difesa Robert Mc Namara (presidente era il democratico Lyndon B. Johnson) a guidare le forze militari americane in Vietnam, quando il governo di Washington definiva ancora le truppe presenti (ventimila in quell’anno) come ”consiglieri”. Teorico della ”guerra di logoramento” Westmoreland si scontrò ripetutamente con altri generali e soprattutto con i politici di Washington, personaggi che non aveva mai amato, riuscendo ad imporre spesso alla Casa Bianca - forte del suo carisma - il suo punto di vista. Le missioni search and destroy (cerca e distruggi), che miravano a uccidere quanti più vietcong (i partigiani comunisti e nazionalisti del sud) fosse possibile, diventarono per il Pentagono il metro di paragone con cui valutare se la guerra stava procedendo con successo o no. Di fronte alla resistenza vietcong e alle truppe vietnamite del Nord, che sotto la guida del generale Giap tenevano in scacco i marines Usa in una guerra dai troppi fronti e senza territori da conquistare (c’era il veto politico a invadere il Nord), Westmoreland chiese al presidente Johnson di inviare un numero sempre maggiore di truppe, in quella che verrà poi chiamata l’escalation della guerra in Vietnam. Convinto che la guerra andasse bene Westmoreland continuò ad inviare a Washington rapporti ottimistici, senza prevedere per tempo la grande’offensiva del Tet” che nel 1968 portò i vietcong ad occupare - sia pure per breve tempo - diverse città del sud e, sia pure per poche ore, a conquistare l’ambasciata americana di Saigon. Il 1968 segnò la fine delle fortune del generale. Mentre in America dilagava la contestazione pacifista, con i campus in fiamme e le reti televisive che mostravano in prima serata battaglie, sconfitte, bombardamenti di civili e migliaia di morti, con le truppe americane che avevano raggiunto la cifra record di mezzo milione, Westmoreland venne richiamato a Washington con la classica promozione-rimozione. Al Pentagono gli venne di fatto impedito di occuparsi ancora di Vietnam e nel 1972, dopo la mancata promozione a capo di Stato Maggiore, carica che era convinto di meritare, il generale - le cui foto venivano bruciate nei cortei di protesta in ogni parte del mondo - decise di abbandonare la carriera militare. Dopo aver tentato con scarso successo la carriera politica - provò inutilmente di diventare governatore della South Carolina - trascorse nell’anonimato gli anni della fine della ”sua guerra” e dell’America che dopo le ferite del Vietnam tentava faticosamente di ritrovare una propria identità. Nel 1982 ebbe di nuovo l’onore delle prime pagine dei giornali. Fece causa al potente network Cbs, che in un programma lo aveva accusato di avere ”nascosto e falsificato” rapporti dell’intelligence sulla pericolosità dei nordvietnamiti per presentare a Washington una situazione piu positiva degli sviluppi della guerra, chiedendo la cifra record di 120 milioni di dollari. In realtà si accontentò - su consiglio degli avvocati - di un comunicato della rete televisiva in cui si precisava che la Cbs non aveva avuto alcuna intenzione di ”mettere in dubbio il patriottismo e la lealtà del generale”. Col passare degli anni, il crollo del comunismo e le rielaborazioni della ”sporca guerra”, anche la figura ”negativa” di Westmoreland era stata in parte cancellata. Lui ormai sembrava curarsene poco: ”Quel che è certo è che non ho rimorsi, nè devo chiedere scusa”» (Alberto Flores d’Arcais, ”la Repubblica” 20/7/2005). «Waste-more-land (alla lettera: devasta più terra). I contestatori della guerra del Vietnam non l’hanno mai scritto altrimenti, il suo odiatissimo cognome. Il generale William C. Westmoreland [...] ha avuto la sorte rara di diventare un simbolo vivente. Per generazioni di americani lui ”era” la guerra in Vietnam, i morti nelle risaie, ”l’odore di napalm di prima mattina”, i massacri vani e spietati. In realtà il conflitto d’Indocina aveva genesi ben più complessa e lui, infine, era solo un esecutore, pur assai in alto nella catena di comando. Eppure, forse per via di quel cognome così bello da storpiare, nei cortei e negli slogan era il bersaglio numero uno. Era la sua immagine a venir bruciata - era il 1968 - nei campus. Fu lui a guardagnarsi il titolo di ”peggior generale della storia Usa dopo Custer”. Fu anche ”uomo dell’anno” per ”Time”, nel 1965. Ma è un onore dubbio, anche Gengis Khan se l’è guadagnato, nel 2000. Però, se la coerenza è virtù era virtuoso; perché ”Wastemoreland” la sua fama se l’è cercata e tenuta stretta. Nei quattro anni da comandante delle forze americane in Vietnam, dal 1964 al 1968, legò indissolubilmente il suo nome alle famigerate missioni search and distroy (cerca e distruggi). Obiettivo da videogioco sparatuttto: scovare ed eliminare il maggior numero possibile di vietcong. E all’escalation del conflitto. Quando il ministro alla Difesa Mc Namara lo nominò gli Usa avevano in loco 20 mila ”consiglieri”. Quando infine lo rimossero c’erano 500 mila soldati. Troppo pochi. Fosse dipeso da lui, aveva ribadito ancora di recente, sarebbero stati di più, molti di più. Perché l’errore non era stato, come andavano blaterando tutti quei ”comunisti”, andare in Vietnam, ma piuttosto non estendere il conflitto a tutta l’area: Laos, Cambogia, Nord Vietnam. Proprio come il generale pazzo di Apocalypse now era innamorato degli elicotteri e li impiegava senza risparmio: ”Per la prima volta nella storia militare è stata raggiunta una vera mobilità aerea sul campo di battaglia”, scrive nelle sue memorie. Però, mentre lui giocava al dio distruttore, i musi gialli sferrarono l’offensiva del Tet e gli rovinarono la festa e la carriera. Richiamato a Washington, emarginato, Westmoreland è vissuto a lungo di memorie e di querele a chi dubitatava ”del suo patriottismo”. Nessuno osava menzionargli la guerra in Vietnam: forse per questo non si è mai convinto che gli Usa alla fine l’avessero persa. ”Ho fatto il meglio che potevo fare”, ha scritto nelle sue memorie. In un certo senso è vero» (Carla Reschia, ”La Stampa” 20/7/2005).