Varie, 19 luglio 2005
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Simon Claude
• Tananarive (Madagascar) 10 ottobre 1913, 5 luglio 2005. Scrittore. Premio Nobel per la Letteratura 1985 • «[...] uno degli ultimi mostri sacri della letteratura del Novecento [...] Nato a Tananarive nel 1913 da genitori francesi appartenenti a famiglie diversissime per cultura e ceto sociale, segnato nella prima infanzia dalla morte del padre disperso in guerra, dopo l’adolescenza a Perpignan, gli studi superiori al collegio Stanislas di Parigi e un breve soggiorno a Oxford e Cambridge, si orienta verso l’arte figurativa e la fotografia seguendo i corsi di pittura di Andrè Lhote all’Académie des Beaux Arts. Ma non è indifferente a quanto sta succedendo in Europa, e in lui finirà per prevalere il desiderio di capire la Storia raccontando l’esperienza vissuta. Nel 1936 è in Spagna a fianco dei repubblicani, una scelta che gli ispirerà Le palace (1962) e Le Georgiche (1981); nel 1940, prigioniero dei tedeschi dopo la battaglia della Mosa fugge rocambolescamente dal campo d’internamento per entrare nella Resistenza, e racconterà le angosce e i pensieri di quei giorni ne La strada delle Fiandre (1962). Nel 1983, firma con altri intellettuali una lettera contro la corsa agli armamenti e nel 1996, con altri 81 premi Nobel, lancia un appello per ”mettere fine” allo sfruttamento sessuale dei bambini. Ad accogliere Simon nel prestigioso gruppo di Minuit fu Alain Robbe Grillet, allora giovane consulente editoriale, cui l’autore de Le Tricheur (1945) aveva mandato il manoscritto di Le vent. Tentative de restitution d’un rétable baroque,(1957). Insieme a lui, a Michel Butor, Nathalie Sarraute, Robert Pinget, Samuel Beckett, Jean Ricardou e Claude Ollier, Claude Simon fu considerato esponente di un gruppo di scrittori che rinnovarono la forma del romanzo. In effetti si trattava di autori con sensibilità e interessi diversi, non legati da orientamenti programmatici. Ma il rifiuto dell’analisi psicologica e l’obiettivo di una rappresentazione oggettiva della realtà li accomunò al punto da farli ritenere una corrente letteraria che fu definita ”Nouveau Roman”, o anti-romanzo. ”Non sono d’accordo che ci sia una tecnica del Nouveau roman - disse in un’intervista a ”La Stampa”, in occasione della laurea honoris causa assegnatagli dall’Università di Bologna nell’ottobre del 1989 -. C’è stato un gruppo, neppure un movimento, che rifiutava la letteratura tradizionale, quella naturalista e le teorie di Sartre... la grande rottura con la tradizione è quella operata da Proust, da Joyce, da Kafka all’inizio del secolo...”. Etichettato come autore ”difficile” Simon restò, a torto, confinato negli schemi del Nouveau roman, nonostante che in tutta la sua opera non abbia fatto altro che raccontare l’amore, la morte, l’assurdità dell’esistenza e la fuga del tempo, le speranze, le disillusioni e le pene del vivere, oltre alla bestialità della guerra. ”A cominciare da L’herbe in cui parlavo di una mia zia che amavo molto, tutti i miei libri sono basati sul vissuto - aggiunse -. Comincio a scrivere sollecitato da qualcosa e lavoro fino ad arrivare a un insieme armonioso. Per fare un paragone con la pittura, è come se usassi un rosso che si accorda con un verde, un azzurro che richiama un arancione”. Un insieme costruito a collage con frammenti di memoria e trascrizione dei fenomeni della percezione secondo un flusso di coscienza a volte vertiginoso. Da La strada delle Fiandre a Storia, da La battaglia di Farsalo a Trittico, Le Georgiche e L’acacia, sperimentando costruzioni testuali diverse Simon ha lavorato su una stessa materia familiare e storica da punti di osservazione diversi. Straordinario, di struggente bellezza ed emblematico dell’opera di Simon, il romanzo L’acacia chiude il ciclo delle vicende familiari cominciate un secolo e mezzo prima sul filo di guerre e rivoluzioni, disuguaglianze, colonialismo, mondanità e fatica dei campi, degenerazioni e ascese sociali, nello scorrere di una storia ”divoratrice” cui il giovane aspirante pittore aveva opposto ”bisogno e il piacere” della scrittura. Il Nobel non cambiò le sue abitudini e il suo sobrio stile di vita. E la motivazione fu quanto mai acuta: ”Nei suoi romanzi si impegna nella descrizione della condizione umana con la vena creatrice di un poeta e di un pittore, associata ad una profonda coscienza del tempo”» (Paola Dècina Lombardi, ”La Stampa” 10/7/2005). «’Scrivo per scrivere”: questa la laconica risposta di Claude Simon (scrittore dedito alle frasi espanse, e dunque di solito per niente laconico) a una rivista che aveva rivolto a lui, e a una folla di altri scrittori, l’eterno, sgarbato quesito: ”Perché scrive?”. E a Stoccolma, durante il discorso ufficiale di accettazione del Nobel, dichiarò: ”Non ho niente da dire”, precisando subito dopo: ”Nel senso sartriano dell’espressione”. Ma era un’aggiunta di cortesia, un’attenuazione che cambiava poco. Gli scrittori dovrebbero essere più prudenti. Se proclamano che i loro libri sono capolavori, e contengono messaggi destinati a ”cambiare il mondo” o a ”cambiare l’uomo”, la critica si sente perlomeno impegnata a controllare che ciò corrisponda a verità. Ma se, per l’incoercibile impulso di una loro umile o brutale strategia, che spesso è una strategia della sincerità, si presentano con frasi che possono essere interpretate in senso riduttivo, vengono subito presi alla lettera. Che sollievo per la critica (e per i media) sapere che uno scrittore non ha ”niente da dire”! Una dichiarazione del genere permette di archiviare qualsiasi pratica a cuor leggero. [...] I suoi libri continuavano a uscire come separati dalla realtà da un velo opaco di noia. Una cipria polverosa si depositava sulle sue interminabili frasi, di una o più pagine, sulle sue descrizioni lenticolari che imprigionavano le storie e i personaggi in una fitta ragnatela. Per ritrovare il filo perduto di un’opera che, anche nella memoria dei suoi (mai molto numerosi) lettori, sta diventando evanescente bisogna cercare un episodio, un personaggio, un’immagine, insomma un elemento che sia in rapporto con tutto il resto, come lo sono i punti dell’agopuntura. Ne La strada delle Fiandre un soldato riceve dal padre professore universitario una lettera in cui si parla della distruzione, durante un bombardamento, della biblioteca di Lipsia: – ... la Storia dirà più tardi che cosa ha perduto l’umanità l’altro giorno in pochi minuti, l’eredità di molti secoli, nel bombardamento di quella che era la più preziosa biblioteca del mondo...”; al che il soldato risponde che ”se il contenuto delle migliaia di libri di quella insostituibile biblioteca non è stato in grado di impedire che accadessero cose come il bombardamento che l’ha distrutta” non riesce a capire ”quale perdita rappresenti per l’umanità la scomparsa sotto le bombe al fosforo di quelle migliaia di libri e di scartafacci evidentemente privi di qualsiasi utilità” ; e a queste parole segue la lista dettagliata degli oggetti di prima necessità di cui il soldato ha bisogno, lì dove si trova, molto più di quanto abbia bisogno ”di tutto il contenuto della celebre biblioteca di Lipsia: calzini, mutande, maglie di lana, sapone, sigarette, salsicce, cioccolato, zucchero”, eccetera. In queste parole mi pare di scorgere il punto di partenza di quella vasta rovinografia, di quell’instancabile rilevazione di un mondo distrutto che Claude Simon ha perseguito in tutta la sua opera. Come osservò Borges, gli uomini si illudono di scrivere libri destinati a cambiare il mondo e alla fine si accorgono di avere semplicemente aggiunto al mondo altri libri; quando Claude Simon dichiarava di non avere ”niente da dire” intendeva sottrarsi agli ingannevoli e monotoni meccanismi di quell’illusione. Un libro è un libro, cioè una Forma. Come gli altri autori del Nouveau Roman, Simon aveva rifiutato l’impegno politico della letteratura e la sua trasformazione in un veicolo di idee e di valori morali; ma in lui, ancora più che in altri, non si trattava di arrogante estetismo, bensì di una difesa strenua contro la retorica, e di un ritorno alla realtà, vale a dire a ciò che si vede, che ci sta davanti. Aveva cominciato come pittore (era stato allievo di André Lhote) ed è rimasto per tutta la vita fedele a una vocazione visiva e descrittiva. I suoi libri sono come quadri di battaglie, non sempre assistiti dalla grazia, ma sempre artigianalmente impeccabili. Diffidava della narrazione, della fabula, perché gli sembrava che fatalmente comportasse una morale. Con lui muore, in quest’epoca di frenetica retorica culturale e identitaria, che sembra porre di nuovo la ”biblioteca di Lipsia” molto al di sopra dei nostri bisogni e dei nostri destini, un grande artigiano della scrittura e uno degli ultimi testimoni della sua autonomia» (Giovanni Mariotti, ”Corriere della Sera” 10//2005). «Per tutta la vita Claude Simon si è considerato un superstite. Doveva esser morto nella prima metà del secolo, nel maggio del 1940, a ventisette anni, quando tutto il suo reggimento di dragoni era stato sterminato da Rommel sulla Mosa. Solo lui era sopravvissuto - grazie a una giumenta: ”Sono sempre stato perseguitato dalla fortuna”, commentava. Claude Simon aveva perso il suo cavallo nel primo passaggio della Mosa; il 17 maggio, a cavalcioni di una giumenta di un commilitone caduto, si era buttato con il reggimento dritto in un’imboscata tedesca. Nel pieno della confusione il colonnello diede ordine di combattere a piedi - un’’imbecillità”, se si è sotto il fuoco; sicché subito era arrivato il contrordine, altrettanto fatale. La giumenta di Simon aveva la cinghia lenta, appena posato il piede sulla staffa, la sella si era rigirata. Mentre tutti i compagni risaliti in sella venivano falciati, Simon, correndo a piedi tra i blindati tedeschi, si era nascosto nei boschi, dove lo aveva trovato il suo colonnello: ”Ah, non sono morti tutti!”, aveva esclamato - prima di essere centrato da un cecchino. Fatto prigioniero, condotto a piedi e su carri di bestiame fino in Sassia, Simon era riuscito a evadere dal campo di concentramento. ”Sempre la mia fortuna!”, ripeteva con modestia a Nathalie Sarraute, la scrittrice con cui, al volgere degli anni Cinquanta, aveva condiviso, insieme a Robbe-Grillet e Butor, l’avventura del ”nouveau roman”. ”Meno male che qualcuno si dichiara fortunato”, chiosava dubitosa la Sarraute. Di fatto è a questo cataclisma originario, a questa ”ordalia” che Simon poteva far risalire l’assunzione del caos dell’esistenza, e il suo abbandono di ogni rassicurante spiegazione e catena di cause con cui discipliniamo il mondo in cosmo - ordine, ornamento e armonia. La realtà della vita e della memoria è frammentaria; per questo la vasta stanza della vecchia casa catalana a Salses, nei Pirenei, è dominata da un grande paravento ricoperto da un collage montato da Simon. Anche l’ampio tavolo basso del salotto - una composizione di variegate mattonelle spagnole - era opera sua. Scriveva allo stesso modo. Per La Route des Flandres, il romanzo del 1960 sulla sua disavventura di guerra, disponendo di una serie di frammenti di scrittura, per montarli provò a attribuire a ogni tema un colore. Appese alla parete del suo studio i foglietti, e valutò l’effetto. Gli sembrò che mancasse, in un punto, una macchia di verde, in un altro, un tocco di rosso. Se serviva una sfumatura rosa, scrisse il passaggio corrispondente, e lo trovò narrativamente necessario. Il montaggio cromatico era il dedalo perfetto per rendere l’indifferenza anarchica del mondo. Anche la memoria è un mosaico simultaneo; il suo ordine non è cronologico né logico, avanza a sussulti e a associazioni. L’autobiografia la intitolò, nel 1997, Le Jardin des Plantes, il parco dove passeggiava ogni giorno, quando stava a Parigi. Gli sembrava che l’esuberanza della natura venisse costretta e addomesticata dalla botanica come la dismisura delle passioni in letteratura. Così, il libro è tipograficamente suddiviso in molte parti che permettono una lettura simultanea degli episodi chiave della vita, eppure sparsi e discontinui: i ricordi d’infanzia, con la morte della madre; la guerra di Spagna, e il traffico d’armi a fianco ai Repubblicani; la bohème a Parigi e i corsi di pittura; la tubercolosi; un bordello anteguerra, i viaggi in Asia, in Giappone, India, Roma; gli incontri con Picasso e Dora Maar; le letture d’elezione, Proust, Dostoevskij, Flaubert. Simon riproduce anche, a titolo ironico, dei passaggi di un colloquio a Cerisy-la-Salle degli anni Settanta in cui era stato accusato, dai settari del ”nouveau roman”, di ”naturalismo volgare” per aver inserito nei suoi scritti documenti, lettere, fotografie, perfino biglietti di banca. Qui Simon cita i diari di Rommel, come già nella Bataille de Pharsale (1969) aveva integrato a collage nel testo passaggi di Proust, di autori latini e greci, e descrizioni di quadri di Poussin, Durer, Brueghel. Per Simon, il termine Histoire, titolo del romanzo del 1967 con cui vinse il premio Médicis, è doppiamente ridicolo: la storia come narrazione è un modello artificiale e esaurito, la Storia come scienza è una pretesa illusoria. Negli anni Settanta (Les corps conducteurs, Triptyque, e Leçon des choses) si accentua così ancora la distanza dalla memoria e dal racconto tradizionale. In Triptyque le frasi complesse, ampie e minuziose tratteggiano i dettagli con la sospesa grazia di una natura morta barocca; ma quei dettagli si animano, diventano, da elemento pittorico - il manifesto di un circo, una cartolina, l’immagine di un quaderno - vita; tre luoghi, città, mare, campagna, si scambiano i colori e gli aggettivi imbricandosi, facendosi ognuno arresto dell’immagine en abime dell’altro, o inversamente suscitando il fotogramma immobile che rimette in marcia l’altra storia.Il monumentale romanzo Les Géorgiques, all’inizio degli anni Ottanta, fa riaffiorare la soggettività e la storia. Ma le tre epoche che si incrociano - guerre napoleoniche, guerra civile spagnola e seconda guerra mondiale - con il loro ritorno ciclico, come le fasi della natura in Virgilio, ironizzano e smontano le pretese di un processo storico intelligibile. uno scetticismo che rende Simon più sollecito verso le vittime degli eventi storici, per reversibile che possa rivelarsi nel corso del tempo il loro ruolo - nel 1960 aveva firmato il ”Manifesto dei 121”, la protesta contro la guerra d’Algeria. Il mistero di uno stile che accosta l’oggetto con meticolosa precisione e miracolosa evidenza restando imprevedibile, segreto e mai compiaciuto fu oggetto, in occasione del Premio Nobel, che gli fu attribuito il 17 ottobre 1985, di una sorta di disvelamento nel Discours de Stockholm: l’unico paesaggio di Simon era il linguaggio. Tre i suoi pensieri dominanti: come iniziare una frase, come farla procedere, come chiuderla. Eppure, negli ultimi romanzi, L´Acacia e il Jardin des Plantes, Simon è tornato a sondare la sua vita, a interrogare il tempo ignoto dei genitori prima della sua nascita, e ancora la guerra, ma quella del ’14 in cui era morto suo padre. Jardin des Plantes si chiude su un progetto di adattamento cinematografico di uno dei suoi frammenti. Lo sguardo, che resta lo strumento più forte di uno scrittore persuaso in gioventù di voler essere pittore, si fissa con una specie di nostalgia sul cinema, che ha una sua tecnica semplice e efficace per far sembrare in movimento gli immobili e sparsi frammenti del nostro destino» (Daria Galateria, ”la Repubblica” 11/7/2005).