Corriere della Sera 12/07/2005, pag.37 Paolo Isotta, 12 luglio 2005
Coppe, carte e corna: al circolo si giocava a fare gli inglesi. Corriere della Sera 12 luglio 2005. Annoiati i lettori dalla superdose musicale loro imposta ad nauseam, tentiamo di far pigliare loro una boccata d’aria parlando di canottaggio
Coppe, carte e corna: al circolo si giocava a fare gli inglesi. Corriere della Sera 12 luglio 2005. Annoiati i lettori dalla superdose musicale loro imposta ad nauseam, tentiamo di far pigliare loro una boccata d’aria parlando di canottaggio. O meglio, del più glorioso circolo italiano di questo sport, napoletana Canottieri Italia. Mi vanto di esserne socio fondatore da tre generazioni. E mi piacerebbe queste noterelle portassero il titolo de A futura memoria. Come osa un minimo rubarlo al sommo Leonardo Sciascia? Ma proprio per il motivo della sua insostituibilità, nel senso che questo genio addita: quando non ci sarà più nessun testimone oculare o almeno de relato, valgano le righe a dare contezza di uno spirito e di un’atmosfera quasi del tutto scomparsi: e assolutamente unici. Bisogna immaginare un club inglese tradotto in napoletano, regnandovi allora un’atmosfera virile, patriottica, ma anche affatto scanzonata e goliardica; e l’amicizia, come l’inimicizia, tra i soci, qualcosa d’intimamente sodale e solidale. Condita dunque di affetto tanto mai dichiarato quanto più profondo e di un continuo sfottere e sfottersi. Le classi sociali armoniosamente si mescolavano: severissimo nell’ammissione, il Circolo super-aristocratico accettava nel suo seno, e n’era fiero, figli del popolo che da allievi avevano meritato nello sport e s’erano amalgamati con duchi e principi. La borghesia intelligente non mancava; l’antifascista e il sansepolcrista sedevano alla stessa tavola sociale; durante il Regime e la Guerra l’ebreo e l’"ariano" si aiutavano l’un l’altro. Nel marzo 1946 la fisionomia sportiva, e ancor più lo spirito originario, del Circolo, mutarono.Esso sibi nomen imposuit di Circolo Italia del remo e della vela. L’attività velistica è floridissima; uniti i due sports vantiamo tante coppe che, esauste le bacheche, non sappiamo più dove metterle; tra i velisti, ci onoriamo di contare un medaglia d’oro olimpionica, Franco Cavallo, e due campioni mondiali, Picchio Milone, figlio di Fabio, e Roberto Mottola, ambedue dimidium animae meae. Ancora negli anni Cinquanta in una saletta si giuocava; e vi persero fortune Vittorio De Sica e Faruk, ospiti, non soci. Mio padre, molto più intelligente di me e divenuto antifascista per essersi subita tutta l’Albania e la Grecia e, rimpatriato, essersi miracolosamente salvato dall’eccidio della caserma di Nola, mi raccontava di un Maestro di casa anteguerra, analfabeta autentico e come tale intelligentissimo, il quale prestava denaro a interesse ai soci giuocatori e no, segnando sopra un taccuino i numeri col lapis ( quelli li sapeva scrivere) e accompagnando la cifra dovuta con un ideogramma di suo conio: ogni segno dell’alfabeto privato corrispondeva a un distinto debitore, e solo lui lo conosceva. Quando da socio allievo venni promosso ordinario regnava sulla Casa il mitico Amedeo. Imponente nella sua giacca bianca corta coi bottoni dorati pesanti, tagliata sul davanti ad angoli prominentisi verso una coda di rondine che non c’era, da steward dei grandi transatlantici d’un tempo (andrebbe ripristinata), l’immenso naso pulcinellesco coronante un volto atteggiato a funerea gravità, porgeva ai soci il menu come l’apparatore di estreme pompe propone la scelta fra i varî tipi di cassa e carro: sine spe. A quella tavola (noi diciamo tavolo) sociale ho conosciuto alcuni fra gli uomini più meravigliosi della mia vita i quali, non sdegnandosi allora le mescolanze tra generazioni, si facevano tutoyer e col loro esempio e colle loro battute insegnavano a vivere a uno sbarbatello. Dovrei fare almeno un opuscolo, appunto, a futura memoria. Ne offro un piccolissimo florilegio. Tra le colonne era Fabio Milone, grande sportivo e grande tombeur de femmes, ultimo Federale di Napoli poi passato alla Repubblica sociale, fulminato da due condanne a morte dopo il 25 aprile alle quali sfuggì, a Milano, per grate benché per loro rischiosissime complicità di signore che lo nascosero in casa propria. Cionondimeno, l’amico che Papà invitò a colazione due giorni prima di morire, di subito, con una battuta di spirito sulle labbra un secondo prima di esalare, conscio, il respiro finale. Quando il Duce proclamò la guerra, Fabio dovette arringare la folla dal balcone della Casa del fascio alla Torretta; tra i patrioti, in camicia nera, s’erano annidati Cesare Zappulli e l’indimenticabile Giovanni Stampa ("Che ’bbulite ’a me – soleva dire ”, i’ song’ ’n errore ’e S(s)tampa") i quali, per renderlo ridicolo, aizzavano i fanatici urlando "Vogliamo Nizza! Vogliamo la Savoja! ". Fabio, al diffondersi d’un per lui fastidioso zelo, dimessi i toni di regime: "Mo’ v’ê ccalo ’c’ ’u panaro!", ora ve le faccio scendere col panierino, alludendo all’abitudine della massaia che, dal balcone, calava (in napoletano verbo anche transitivo), dopo cantata contrattazione, al venditore ambulante con uno spago il contenitore del denaro, contenitore che andava riempito col corrispettivo in natura. In fin di vita, sulla terrazza del Circolo, disse con sprezzatura: "Il cancro, come le corna, bisogna saperlo portare" . Già, le corna. Come la morte, erano soggetti inesauribili di battute. Un compianto chiarissimo internista, dotato di temperamentosa dolce metà, si fece crescere la barba. Un chiarissimo oftalmologo commentò: "Era l’unica sostanza cornea che gli mancasse in testa". Per alcun tempo, ebbimo il fastidio di ospitare uno scrittore del Nord,geniale di suo ma maleducato e jettatore sibi suisque, che menava continuo vanto delle sue conquiste femminili. Invitato da un consocio a curare meglio i casi suoi, avendo egli colassù lasciato la davvero deliziosa consorte, rispose esser ella appagata della cotidiana canasta serale con le amiche. Serafico, Papà disse: "Ah, ora le chiamano "canasta"" . Un’altra volta che costui si trovava nel salone minacciò con lo sguardo un socio intento a leggere il locale quotidiano, più diffuso di quello da lui onorato. "Diretto’, non Vi pigliate collera se noi ci perdiamo i Vostri bellissimi "fondi": ma nuje c’avimm’ â trezzia’ ê muorti". I necrologî apparivano sul primo dei due; il verbo "trezziare" significa il voluttuoso aprire pian pianino a ventaglio le nove carte dello scopone scientifico che si ritirano coperte tutte insieme quando il cartaro le distribuisce. Scoponista supremo era il marchese Giulio Puoti, diretto discendente di Basilio. Si vantava di saper a stento apporre la firma e viveva in orgogliosa povertà: era intelligentissimo e gran signore, e coi suoi compagni faceva passare le carte alla velocità di colpi di mitragliatrice, tenendo tutto il conto a mente come una calcolatrice: alla fine i quattro scoprivano le due ultime carte restategli, conoscendo infatti perfettamente ciascuno quelle degli altri e l’inesorabilità matematica del giuoco. Un 20 dicembre un socio si precipitò "abbasso al Circolo" per comunicare l’improvvisa scomparsa di un benemerito industriale napoletano, consocio. Giulio continuò a giuocare. L’anno successivo, il 22 dicembre, lo stesso apportatore di buona novella zelò per annunciare trapassato il fratello dell’estinto. Il Marchese, sempre tirando le carte, in dialetto stretto: "Ma questi sono come i capponi, muoiono tutti quanti a Natale!". L’aneddoto è tramandato col titolo Viva partecipazione al lutto, apposto da Fabio. Già malato, Giulio si recava a Roma col "rapido" pomeridiano in partenza dalla stazione di Mergellina. Viene scorto da un socio, tanto più jettatore quanto più affettuoso: nota la sua abitudine di attraversare la strada per non perdersi nemmeno uno degli eletti al saluto. Corre verso l’amico. "Giulio, Giulio, vai a Roma?". Col piede sul predellino e la mano attaccata alla staffa, laconico, fissandolo monitorio nelle palle degli occhi: "Forse". Caro, caro Marchese, chi Ti ha conosciuto come potrà scordarsi di Te? Qualche giorno fa, ero a pranzo con sei Fondatori più o meno coetanei e antiquati come me. Nell’angusta saletta vediamo un carissimo consocio che non incontravamo da tempo. Il prefetto del sant’Uffizio e io andiamo a festeggiarlo. Dopo tavola egli ci passa innanzi mentre sediamo sui divani col nostro cognac in mano. Saluto "circolare", come alla cantina. Io mi alzo e l’abbraccio. Volgendosi agli altri sei, l’amico, indice della destra alzato: "Per il bacio, basta solo lui". Applauso a scena aperta. Quanto a me, come si vede, resto un novellino. Regnava un’amicizia virile e patriottica, scanzonata e goliardica. Paolo Isotta