Varie, 19 luglio 2005
LAVAGETTO Mario
LAVAGETTO Mario Parma 14 luglio 1939. Critico letterario • «[...] “La critica non ha più chi l’ascolti”. Una morte provocata. Da chi? Dal profluvio di volumi buttati sul mercato e destinati a non essere letti; dalla mancanza di programmi critici; dagli specialismi esasperati; dalle mode fatue. L’obiettivo polemico [...] è George Steiner: “In Vere presenze rappresenta una cultura travolta dalle letture critiche. Quindi ipotizza una città del libro in cui sia imposto il divieto di critica. Mi pare un’immagine semplificata e deformata, perché secondo me è indispensabile disporre di strumenti per collocare un’opera. Per fortuna c’è una nuova generazione di critici di notevole interesse. A volte mi stordiscono perché sanno tutto e parlano di tutto, ma rivelano una grande vivacità intellettuale. La partita non è del tutto perduta” . Ci sono poi i dimenticati del passato. Come Roland Barthes: “Si verificano strane cancellazioni cicliche dovute al fatto che spesso chiediamo ai critici quel che non possono darci. Leggere Barthes al microscopio sarebbe sbagliato, non è uno studioso sistematico o organico, eppure riesce a offrire un numero infinito di suggestioni intellettuali”. E in Italia? Il nome più ricorrente è quello di Giacomo Debenedetti, maestro di Lavagetto: “Uno dei pochi sopravvissuti, anche se in vita era un emarginato. Debenedetti è sempre capace di sollevare molti interrogativi. A differenza di tanti altri, viene ancora letto”. A differenza, per esempio, di Gianfranco Contini che qualcuno considera il complemento necessario di Debenedetti: “Come scrisse Contini, Debenedetti era un vero scrittore che si mise al servizio della critica. Contini era tutt’altro: filologia, ma non solo filologia. Oggi se ne parla solo per singole illuminazioni. Chi sono i suoi eredi giovani?” . L’impegno è un’altra cosa, almeno in apparenza. Per esempio, come ha fatto Lavagetto, mettere a disposizione del grande pubblico un tutto Svevo finalmente accertato filologicamente. Oppure l’impegno è negli spiriti più diretti e combattivi. “Non stabilirei, come è stato fatto, un’opposizione Pasolini-Calvino. In Pasolini era ancora vivo un principio di realismo, la convinzione che la letteratura possa se non cambiare il mondo, almeno sforzarsi di modificarne il corso. Sono convinto però che la scelta di Calvino non fu l’abbandono dell’impegno. Il suo impegno è più distaccato, ma è ben visibile l’interesse per la trasformazione del pensiero: la sua attenzione alla cibernetica lo dimostra”. Altro esempio di attenzione al sociale è quello di Alberto Asor Rosa, il quale, secondo Lavagetto: “Ha la capacità formidabile di cogliere i movimenti molecolari all’interno della realtà. Anche come studioso di letteratura è ipersensibile agli spostamenti sociali, che diventano, all’interno dei testi, spostamenti di linguaggi e di punti di vista. Scrittori e popolo è una sorta di manifesto in questo senso, un progetto generale. Il suo impegno non è mai venuto meno, sia pure in una posizione sempre lievemente collaterale rispetto alle forze istituzionali della sinistra”. Lavagetto cita Sartre: non c’è bisogno di parlare della bomba atomica, per essere politicamente impegnati si può benissimo parlare di una pera. “Insomma, anche quando l’oggetto non è immediatamente politico, si possono percepire le tensioni della realtà”. Quelle tensioni che negli anni Settanta molta critica semiologica tentò di smascherare. “La semiotica ha molti meriti: primo, aver fatto i conti con Croce e il crocianesimo; secondo, essersi presentata come disciplina potenzialmente didattica: ha dimostrato che si può insegnare come è fatto un testo. Certo, poi come ogni metodo, la semiotica ha raggiunto i propri limiti. La maledizione della nostra società è che si viene trasformati subito in complici a posteriori, come è successo alla semiotica dei mass media. Ma sono cambiate le forze politiche di riferimento e la collocazione degli intellettuali è più complicata. Oggi sarebbe difficile immaginare un Pasolini”. Sarebbe anche difficile immaginare una casa editrice come l’Einaudi dei primi anni Ottanta, quando Lavagetto entrò come consulente: “Sì, oggi è cambiata radicalmente. Ricordo che Giulio Einaudi, quando qualcuno di fronte a una proposta avanzava riserve di tipo economico, scattava: ‘Qui si prendono decisioni culturali’, diceva. Era inimmaginabile presentare un libro di critica e sentirsi dire: è troppo lungo per le nostre possibilità. C’era una disponibilità al rischio molto più alta” . Il rapporto politica-cultura in Einaudi? “Fu molto significativo per la parte più vivace del nostro Paese. A proposito di egemonia, è vero, un’egemonia culturale della sinistra c’è stata, ma ha coinciso con una delle fasi migliori della nostra cultura. Uno degli episodi più alti di questa egemonia è stata la pubblicazione delle opere di Gramsci nella versione tematica organizzata da Togliatti. Un altro è rappresentato dall’edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Giarratana. La casa editrice mise a disposizione un migliaio di cofanetti per le scuole: si attivò un movimento di rilettura di un classico del pensiero del Novecento”. Un’operazione dalla chiara connotazione politica. Risposta: “Certo, ma non meno indiscutibile era la connotazione di Croce che aveva permeato la cultura scolastica per anni” . A metà degli anni Settanta, Lavagetto contribuì alla fondazione di Pratiche, la casa editrice di Parma, nata con l’obiettivo di “utilizzare una specie di sismografo da campo nell’ambito delle scienze umane”. Altro progetto “militante”, pensato con Giulio Bollati dieci anni dopo: fondare nella Reggia di Colorno una scuola di editoria e un mega-archivio storico dell’editoria italiana. Quando sembrava ben avviato, fallì: “Fu considerato un piano bolscevico dalla nuova giunta provinciale. Ancora adesso sono convinto che studiando gli archivi editoriali verranno fuori una straordinaria storia non ufficiale degli intellettuali”. In realtà, Lavagetto in quel periodo non maturava certo idee bolsceviche, anche se nel suo passato c’è qualche anno di intensa attività politica nel Pci. Mai pensato di continuare? “Per fare il politico mi manca l’arte della mediazione. Già allora pensavo che il modo migliore per essere di sinistra era fare al meglio il proprio mestiere” . È vero che non c’è buona critica senza buona letteratura? “C’è una coincidenza tra le due cose. E questo, su scala mondiale, non è certo un periodo nefasto per la letteratura”. Qualche esempio? “Underworld di Don De Lillo è un grande romanzo che non nasce nel vuoto”. E in Italia? “La domanda che spesso mi pongo è questa: perché il romanzo non è morto, nonostante tutti gli atti funebri stilati anche da critici di prim’ordine?”. Perché? “Primo, c’è stata una grande rimozione dei traumi determinati dall’avanguardia di inizio Novecento; secondo, nella tradizione occidentale si sono affacciate nuove letterature emergenti che raccontano storie; terzo, il bisogno di storie è un bisogno primario dell’umanità, qualcosa che resiste a tutti gli attentati”. Risultato? “Un romanzo come Underworld conserva piena memoria di tutti i traumi riuscendo a non restarne schiacciato” . E poi? “Calvino resta un esempio: uno scrittore dotatissimo nella narrazione, uno scrittore felice almeno fino alla trilogia e alle Fiabe italiane. Uno scrittore che con formidabile intelligenza lavorava in varie direzioni per tenere aperte più possibilità di scrittura e di mondo, quando tutto sembrava stringere d’assedio la letteratura. Nei suoi testi c’è un’ansia molto forte: altro che ultimo degli arcadi!”. E dell’anti-Calvino per eccellenza, di Gadda, che cosa pensa? “Uno scrittore costruito, si è fatto pezzo per pezzo. Appartiene al genere di scrittori che amo di più” . Tra i più recenti? “Mi piace Del Giudice, seguo Scarpa, che ogni tanto eccede in manierismo. Ho apprezzato l’ultimo Pincio. Quando guardo una pittura sono attratto dalla materia e per la letteratura è lo stesso: se c’è una scrittura inerte e opaca, che non sfugge alla quotidianità, non riesco ad andare avanti. Non mi basta la storia”» (Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera” 13/7/2005).