Varie, 19 luglio 2005
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Lattuada Alberto
• Milano 13 novembre 1914, Roma 3 luglio 2005. Regista • «[...] Nel cinema, dove tutti sono dottori, lo chiamavano l’Architetto per la laurea al Politecnico di Milano. Fu il regista della bellezza: amava portare davanti alla macchina da presa splendide adolescenti sul punto di farsi donne. [...] Infallibile nell’inquadrare, sensibile nel valorizzare gli attori, sempre attento al racconto. Si potrebbe definirlo il più americano dei nostri registi, dando all’aggettivo una forte connotazione positiva. Perché l’autore di Il cappotto (il suo film preferito, tratto da Gogol) si è caratterizzato proprio come l’artigiano artista capace di stringere in una sintesi vincente cultura e mercato. Abile cioè a conferire dignità e stile al prodotto di confezione senza perdere il contatto con il grande pubblico e la realtà politico sociale. Sembra facile, in Usa lo fanno Spielberg, Scorsese, Coppola, Stone e altri: ma da noi? Se tornassero a nascere uno, due, dieci Lattuada, il panorama cambierebbe. Alberto era un socialista sceso dall’arca ben prima di approdare a Hammamet. Da giovane era stato un salvatore delle vecchie pellicole su cui nacque la Cineteca Italiana; e nel 1940 finì in questura per aver proiettato alla Triennale La grande illusione di Renoir. Su precedenti da fotografo d’arte, diventò nel cinema l’aiuto di Mario Soldati che lo definì “un ardente pignolo”. All’esordio nella regìa fu bollato dalla criptosinistra come calligrafo, ma nel dopoguerra rivelò una viva sensibilità ai drammi dell’epoca. Il bandito è un classico del melò; e Senza pietà, girato a rischio nella pineta di Tombolo, fu un capolavoro che vent’anni più tardi avrebbe potuto firmare Fassbinder. In quell’occasione ebbe con sé Fellini, che trascinò recalcitrante come co autore di Luci del varietà. Un passaggio di testimone di cui (a mia memoria) il benefattore fu più riconoscente del beneficato. Infaticabile scopritore di talenti, Lattuada si incantava quando riusciva a portare davanti all’“occhio quadrato” della macchina un’adolescente sul punto di farsi donna. Benché nei film non ci sia un’immagine meno che casta, fra le persecuzioni della censura e le punzecchiature dei maligni ne ricavò la fama di semipornografo. Minacciava di essere il suo tallone d’Achille, mentre la connotazione lo accomuna ai contemplatori delle fanciulle in fiore, da Cardarelli a Saba: sicché l’Architetto si potrebbe anche definire, parafrasando un altro poeta, il cineasta della bellezza» (Tullio Kezich, “Corriere della Sera” 4/7/2005). «[...] Nell’immagine popolare, fu il talent scout delle ninfette, colui che impose l’erotismo acerbo e ambiguo dell’adolescenza: Jacqueline Sassard in Guendalina, Catherine Spaak in Dolci inganni, Pascale Petit di Lettere di una novizia, Teresa Ann Savoy nel sincero Le farò da padre, Dalila Di Lazzaro in Oh, Serafina, Clio Goldsmith in La cicala, senza contare le giovanissime Nastassia Kinski di Così come sei e la splendente Moriconi della Spiaggia, pamphlet contro l’ipocrisia della middle class anni 50, scandalo d’epoca. Lattuada fu un irregolare, uno scapigliato, un estroverso: il più “americano” dei registi italiani, quello meno catalogabile, quello che ha cambiato più generi, dallo storico al sentimentale al thriller. Rinnovò il neo realismo iniettando il noir americano nel Bandito con Nazzari Magnani; lavorò la commedia italiana con un tocco grottesco che lascia il segno (le tre sorelle zitelle del capolavoro Venga a prendere il caffè da noi), rifà Pabst con l’originale Fraulein Doktor sulla prima guerra mondiale. Nato a Milano nel 1914, figlio del musicista Felice, studiò architettura, ma con ambizioni artistiche: amico di Risi, lavora con Mondadori, pubblica racconti e poesie, si dedica alla fotografia (la raccolta Occhio quadrato, ’41), si interessa di pittura e partecipa alla fondazione della Cineteca Italiana col grande Luigi Comencini [...] Lo studio dei maestri lo rende sensibile al cinema del passato, mentre lavora come sceneggiatore con Soldati e Poggioli, iniziando una lunga collaborazione con la major di allora, la “Lux”. La sua carriera, dal 42 all’85, è composta di un puzzle di 34 film e 3 produzioni tv negli anni 80: il kolossal in 4 puntate Cristoforo Colombo, Due fratelli e Mano rubata. Ben 16 fra i suoi titoli sono letterari, scontando talvolta l’ingiusto aggettivo calligrafico; un 17mo, L’imprevisto, viene da una commedia di Anton. A spasso nel tempo, dal licenzioso 500 della Mandragola con la Schiaffino e Valli, all’800 di De Marchi (l’opera prima Giacomo l’idealista, ’43), da d’Annunzio (Il delitto di Giovanni Episcopo, ’47 con un grande Fabrizi) a Verga (La lupa, 53, con Kerima). E molto Novecento: Zuccoli (La freccia nel fianco, ’45, racconto dal cuore liberty), Bacchelli (Il mulino del Po), Piovene (Lettere di una novizia), Brancati (Don Giovanni in Sicilia con Buzzanca), Berto (il naif Oh Serafina con Pozzetto), un romanzo inedito (La cicala in cui lancia Barbara de Rossi ). E due volte Piero Chiara: l’opera ultima e non memorabile La spina nel cuore e l’ineffabile, crudele ritratto di provincia con un grande Tognazzi lombardo, con ictus finale. Le radici straniere sono russe: lo straordinario Cappotto di Gogol, col grande Rascel, La tempesta di Puskin, kolossal multinazionale dal respiro epico, La steppa di Cecov, quasi intimista, e Cuore di cane di Bulgakov, ieri, oggi e domani. Lattuada, intellettuale simpatico e aperto, seppe essere letterario e popolare, per pochi e per molti, poeta e prosatore, coltivò la doppia verità del cinema. Amò molto gli attori, lavorò con la Loren e Celentano (Bianco, rosso e…), Giannini (Sono stato io, uno dei suoi freddi gialli sociali come L’imprevisto, Matchless e L’amica con la Gastoni). Con un baffuto, indimenticabile Sordi girò uno dei più sgradevoli e crudeli apologhi sull’onorata società, Mafioso. Cantore della borghesia, Lattuada spiò spiagge e salotti, i costumi e il costume, teen agers alle prime scoperte del sesso come nel bellissimo I dolci inganni. Negli anni del film lacrima, i ’50, il successone (oltre 1 miliardo di allora!) fu il melò fotoromanzo Anna con la Mangano peccatrice redenta come suora che balla El negro zumbon per Gassman: pop, kitch e cult. E il magnifico Luci del varietà diretto col deb Fellini, cronaca di una scalcinata compagnia di avanspettacolo con la Masina e la bella Del Poggio, vera soubrette di Macario. Lavorò anche per commissione, di routine, ma quasi sempre il suo tocco è riconoscibile: nell’attenzione per la composizione figurativa, nella cattiveria intelligente dello sguardo, nell’analisi delle sfumature del desiderio che lo vogliono autore erotico. Definizione insufficiente a comprendere la varietà, lo spirito, l’energia di un cineasta colto e innamorato del suo lavoro: un coraggioso, sempre ad occhi aperti» (Maurizio Porro, “Corriere della Sera” 4/7/2005). «[...] uno di quella generazione, già attiva prima della guerra, passato dal clima del neorealismo alla satira sociale. Gli è rimasta appiccicata addosso, con qualche fastidio, l’etichetta di scopritore di fanciulle in fiore. Ma oltre che inventore di giovani talenti femminili, Lattuada aveva saputo con uno stile tutto personale esplorare generi diversi, dal melodramma alla commedia all’italiana, dall’osservazione dei mutamenti della nostra società alla ricostruzione storica. Nato a Milano nel 1914, aveva cominciato a amare il cinema con la fondazione della Cineteca italiana, pionieristico archivio milanese salvato in modo avventuroso dalla furia fascista. Dopo aver partecipato alla sceneggiatura del film di Mario Soldati Piccolo mondo antico, esordisce come regista nel 1942 con Giacomo l’idealista, si avvicina al neorealismo con Il bandito, storia di un reduce dalla prigionia in Germania (Amedeo Nazzari) che diventa il capo di una banda di malviventi, una svolta che trasforma il film in un gangster movie all’americana. Del lavoro è interprete Carla Del Poggio, già celebre per aver interpretato Maddalena... zero in condotta di De Sica, che diventerà sua moglie e sarà la protagonista di Senza pietà, un’altra storia neorealista ambientata nella macchia di Tombolo vicino a Livorno. Ma in Lattuada, che ha subìto un’altra etichetta, quella di autore eclettico, convivono diversi tipi di interesse nel fare cinema. C’è l’autore colto che trae spunti dalla letteratura, c’è il curioso dell’universo femminile e c’è il regista interessato al melodramma e ai generi più popolari. Il mulino del Po del 1949, tratto da un romanzo di Bacchelli, è un film corale sulla lotta dei braccianti emiliani alla fine dell’Ottocento. La tempesta è tratto da Puskin, Cuore di cane da Bulgakov, Il cappotto, un suo capolavoro del 1952, da Gogol. Protagonista è, con un’interpretazione inedita, Renato Rascel. Anche Totò è stato utilizzato da Lattuada in una commedia in costume, tratta da Macchiavelli, La mandragora. Del 1951 è Luci del varietà, realizzato con Fellini, che dà il via a un vero e proprio genere, quello sull’avanspettacolo. Arriva poi l’interesse per il mondo dell’adolescenza femminile con il debutto di giovanissime attrici come Jacqueline Sassard in Guendalina del 1957 e Catherine Spaak in Dolci inganni del 1960. Con l’’arrivo degli anni Sessanta Lattuada esplora generi diversi: il giallo con L’imprevisto e Mafioso, la commedia con Don Giovanni in Sicilia e Fraulein Doktor. Nei Settanta con Venga a prendere il caffè da noi, Sono Stato io e Le farò da padre utilizza attori celebri come Ugo Tognazzi, Giancarlo Giannini e Gigi Proietti per raccontare con sottile umorismo il ruolo dell’arrivismo, del successo e del denaro nella società italiana. Negli anni Ottanta riaggiorna ambienti e atmosfere erotiche in La cicala con Clio Goldsmith, Barbara De Rossi e Virna Lisi, una sorta di fotoromanzo trattato in maniera aristocratica e ambientato in un motel per camionisti gestito da una ex prostituta. Da un romanzo di Piero Chiara (che aveva ispirato Venga a prendere il caffè da noi) è tratto anche Una spina nel cuore, con la giovanissima Sophie Duez, ritratto di una provincia che, sotto un’apparenza innocua, nasconde segreti e peccati. Negli anni Ottanta si dedica quasi esclusivamente alla televisione. Realizza per la Rai il kolossal Cristoforo Colombo che ha vinto in America il premio Emmy, un equivalente dell’Oscar per la tv. A questo seguono Due fratelli (1987) e Mano rubata (1988). Il suo ultimo intervento al cinema [...] è stato come attore. Ha interpretato, nel ruolo di un burbero uomo d’affari, il film di Carlo Mazzacurati Il toro» (Roberto Rombi, “la Repubblica” 4/7/2005). «“La mia colpa”, disse una volta Alberto Lattuada, “è che non sono allineato”. Si festeggiava in pompa magna il suo ottantesimo compleanno a Milano, in quella che era ed è rimasta anche dopo cinquant’anni di Roma la sua città, la città della sua formazione e del suo imprinting culturale. E Lattuada, che pure non era certo un uomo incline alla lamentela o all’autocommiserazione, sempre cordiale, allegro, vivacissimo, aveva voglia di mettere i puntini sulle “i”: perché non deve essere piacevole, anche se sei stato lo scopritore di Jacqueline Sassard, di Nastassja Kinski e di Catherine Spaak, essere ricordato solo e soprattutto come il più dotato talent scout di ninfette in fiore con un futuro di attrici, quando si ha invece alla spalle una solida, importante, articolata storia culturale e cinematografica. In un’intervista a Tullio Kezich, rispondendo a una domanda sul suo presunto eclettismo - questa etichetta che assieme a quella di “calligrafo” lo seguì per tutta la vita - una volta Lattuada elencò i suoi film più importanti e gli “spunti”, come li chiamava riduttivamente, che lo avevano interessato. Nel caso di Il bandito era “il dramma del ritorno dopo la guerra”. Per Senza pietà, “il razzismo”. Il mulino sul Po? “La lotta di classe nella campagna”. In Il cappotto, “l’orrore della burocrazia”; in La spiaggia, “l’ipocrisia borghese”; in La tempesta, “il fallimento delle rivolte spontanee”; in I dolci inganni, “la liquidazione del mito della verginità”. Come dire: non c’è bisogno di fare proclami, di sbandierare ideologie o di predicare, per affermare le cose che ci stanno a cuore, per fare la sua pratica di moralista della libertà. E Lattuada, che si dichiarava “socialista”, a dispetto di tutti gli slittamenti (e i peggioramenti semantici) che la parola ha assunto nel corso degli anni - e forse perché lui parlava di un socialismo più autentico e profondo, quello che chiamava “la grande speranza del nostro secolo” e del cui crollo dichiarava di avere sofferto - aveva delle cose importanti da dire, anche se la sua bravura e il suo professionismo da grande uomo di spettacolo hanno fatto premio sul resto. E basterebbe vedere quel capolavoro che è Il cappotto per dirsi che forse le gerarchie dei valori cinematografici sono facili da sovvertire. È una cultura solida e non esibita quella che esce nei suoi film: la cultura del giovane milanese che si laurea in architettura, che fonda con Alberto Mondadori il quindicinale Camminare (nel 1932), che dà vita, assieme ad Ernesto Treccani, a Corrente (nel 1938), con cui fa la fronda al regime, che fonda con Luigi Comencini e Mario Ferrari la Cineteca italiana, che scrive di cinema su Domus, che sceneggia e fotografa, che tra un film e l’altro si dedica anche alla regia di opere liriche, che fa debuttare con lui Fellini nell’incantevole Luci del varietà. Paradossalmente il successo - di Anna, di Guendalina, di I dolci inganni - e le doti di grande artigiano hanno messo in ombra l’artista e l’uomo colto. O forse è stato anche lui, nel suo modo disinvolto e semplice di presentarsi, a volerli mettere in ombra: non aveva l’etichetta di cinema impegnato, ma il suo discorso andava più lontano» (Irene Bignardi, “la Repubblica” 4/7/2005). «Su una parete dello studio romano di Alberto Lattuada [...] c’era un disegno di Maccari: un regista in divisa da regista davanti a una ragazzotta informe dall’aria stolida. Battuta: “Farò di questa patata un’attrice”. A fare le attrici Lattuada ha dedicato molta parte della sua energia nervosa, della sua accanita pignoleria, della sua capacità creativa. Ha dovuto affrontare a volte situazioni anche incomode: come giurare a colonnelli indignati di non essere un bruto o sentirsi dire con rabbia: “Si levi di torno, odioso pappagallo”, cioè la prima frase che gli rivolse sua moglie Carla Del Poggio, sposata per sempre nel 1945 [...] Aveva cominciato nel 1942 a inventare l’interprete del primo film da lui diretto, Giacomo l’idealista. Gli avevano detto che in un atelier di Torino lavorava una indossatrice bellissima, era infatti Marina Berti: “Diciannove anni, un corpo esile da commuovere, una faccia struggente. La scritturai subito”. Nel 1946, per Il bandito, aveva reinventato Carla Del Poggio: “Che divertimento capovolgere lo schema, fare di una signorinetta una prostituta, di una carina borghese una bellezza sensuale»”. Nel 1947 aveva inventato Giulietta Masina, che sotto la sua direzione fece la prima apparizione cinematografica in Senza pietà (Fellini co-sceneggiatore), prendendo subito un Nastro d’argento. E nel 1951 era stato lui a far pronunciare a Sofia Loren in Anna la prima battuta della vita. Strizzata in una maglia nera, con una parrucca di rafia d’oro e la bocca violentemente truccata, la ragazza entrava in un bar. Lo spavaldo barista Vittorio Gassman le faceva: “Ciao, bella, quando?”. Lei rispondeva sussiegosa: “Mai”. Breve, come battuta: ma per la Loren era la scoperta della parola, il riscatto dal mutismo di comparsa. Nel 1953 inventò per La spiaggia Valeria Moriconi: “Aveva una faccia da bambina paffuta, però con qualcosa di brusco, di volgare e infido. Un corpo strepitoso, un temperamento da stordire”. Nel 1957 inventò Jacqueline Sassard, scoprendola davanti a un liceo di Nizza: “Intelligente, anticonformista, la prima ragazza in jeans che incontravo. Diceva cose pazzesche, rinnegava tutto e tutti, era libera. E quegli occhi, quei dentini sporgenti... Incantevole. Le feci interpretare subito Guendalina”. In Guendalina, 1958, recitava un’altra sua scoperta, Carla Gravina, pure lei colta all’uscita di un ginnasio in via Asmara a Roma; del resto, anche sua moglie Lattuada l’aveva conosciuta facendole la posta mentre andava a scuola. Catherine Spaak, conosciuta in Costa Azzurra dallo sceneggiatore Charles Spaak, restava la sua scoperta forse più riuscita e tormentosa: “Andò benissimo per I dolci inganni, nel 1960: la sua schiena fragile e nuda era intensamente suggestiva, purissima. Aveva in sé il mistero dell’androgino, è un genietto molto enigmatico e feroce: non esiste che lei, solo a se stessa dà importanza, gli altri si limita a usarli. Dopo il successo mi ha rinnegato, poi siamo ridiventati come vecchi compagni di scuola”. Altre invenzioni: Cristina Gajoni (“un Renoir”), le principesse Soraya e Ira Fürstenberg, Thérèse Ann Savoy (Le farò da padre, 1976), Clio Goldsmith (La cicala,1980). Insomma creare attrici era per questo regista intellettuale una vera vocazione, originata da diversi elementi: il pigmalionismo, la prepotenza, l’amore per le donne e in particolare per la loro bellezza adolescente (“Mi danno anche del maniaco, dell’amatore di ninfette, ma non è vero. Sono normalissimo, quindi le donne giovani mi piacciono più di quelle mature”. Credeva in tutte, magari per poco ma veramente, come del resto credeva in tutto ciò che faceva, e questa totale partecipazione spiega forse il suo eclettismo d’autore. Ha diretto film tra loro molto differenti: drammi neorealisti, affreschi storici (Il mulino del Po, La tempesta), analisi intimiste (Lettere di una novizia), gialli come L’imprevisto, fumetti come Anna (da lui definito un film cinico-farmaceutico, perchè vi erano dosati con freddezza tutti gli ingredienti necessari al successo popolare), avventure spionistiche (Fraulein Doktor, Matchless), commedie di provincia (Venga a prendere un caffè da noi). Per non parlare del primo film a cui collaborò, Il cuore rivelatore, una versione in sedici millimetri del racconto di Poe diretta da uno che poi nel cinema non fece carriera, Alberto Mondadori. I suoi estimatori dicevano che era un regista di tipo americano, capace cioè di dare sempre un prodotto ben confezionato, corretto, e ogni tanto anche un film di ottimo livello. I suoi detrattori dicevano che era un regista senza un proprio mondo, segnato dal dualismo tra impegno intellettuale e tentazioni della popolarità, tra cultura e spettacolo. La cultura era all’origine di Lattuada. Cresciuto in una famiglia in cui l’arte era metodo di vita, figlio del compositore Felice Lattuada; redattore nel 1933 di “Camminare”, una rivista di ribellismo giovanile fascista fondata insieme ad alcuni compagni di scuola del liceo Berchet di Milano, Luciano Anceschi, Enzo Paci; laureato in architettura al Politecnico; componente il comitato di redazione di “Corrente” con Ernesto Treccani, Vittorio Sereni, Giansiro Ferrata, Dino Del Bo, Raffaele De Grada; co-fondatore e organizzatore della Cineteca Italiana. Insonne, vitale, fumatore di mezzi toscani (quattro al giorno), portatore di cappelli e berretti. Pignolo: perché il cinema è un mestiere di pignoleria, la mancanza di meticolosità può distruggere la geniale sintesi di un’idea, perchè era milanese, perché era architetto e perché, diceva sua moglie, era pazzo. Sempre dominato dalla passione di scrivere: critica letteraria e cinematografica, racconti e appunti di viaggio, note apposte su certi quadernetti cartonati che teneva sempre in tasca, versi, novelle allucinate alla maniera di Gogol. Indimenticabile, nel suo Diario del grande amatore, l’insuperato inno surrealista dell’anziano viveur austriaco marchese Rathenau von Krommen: “Io ormai ciunto-età decrepita-a mi la tonna-difenuta ensipeta -perciò montare-mio velocipeta -e marsch! Vienna ancor”» (Lietta Tornabuoni, “La Stampa” 4/7/2005).