Varie, 18 luglio 2005
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Keret Etgar
• Ramat Gan (Israele) 20 agosto 1967. Scrittore • «“Mia sorella è sempre al telefono con mio fratello. Lui è un leader di Anarchici anti-Muro, un veterano degli scontri con l’esercito. Le dà consigli sulle tecniche per fronteggiare la polizia nelle manifestazioni contro il ritiro da Gaza. Mia sorella si chiama Dana, vuol dire giudice. Mio fratello Nimrod, colui che ha costruito la Torre di Babele, un ribelle. Mia sorella ha undici figli, è ultraortodossa, non legge i giornali. Mio fratello è di ultrasinistra, si batte per la liberalizzazione della marijuana. Mia sorella parla soprattutto yiddish. Mio fratello ha combattuto in Libano, durante il militare ha trasformato un’antenna per le comunicazioni in totem: Tsahal l’ha messo sotto processo per paganesimo, credo sia l’unico nella storia d’Israele”. Etgar Keret potrebbe passare tutto il giorno in un caffé a parlare delle contraddizioni della sua famiglia e di quella allargata che è Israele. Con il mezzo sorriso di chi sa di raccontare episodi sconcertanti. Del padre scampato all’Olocausto dopo aver vissuto due anni in una buca dove non ci si poteva alzare in piedi (“non sono impazzito, mi ha detto, perché dormivo venti ore al giorno”), della madre sopravvissuta al ghetto di Varsavia e arrivata da sola a Tel Aviv (“come primo matrimonio, ha sposato un calciatore molto famoso e molto geloso”), dei nipotini religiosi che non hanno mai visto una televisione (“ho stampato una versione di un mio libro per bambini apposta per loro, certificata da un rabbino”). Quando si ferma, è per dire: “Offrono storie molto migliori di qualunque io possa inventare”. Da destra è stato attaccato perché pro-palestinese e antisemita, da sinistra perché qualunquista. “Cercano di vedere quale slogan ho appiccicato con gli adesivi sulla macchina. Il punto è che io non ho un’auto”. L’unica etichetta che sono riusciti ad affibbiargli è quella di “voce dei giovani israeliani”, ci mette poco a grattarla via: “Quali giovani? La ragazza ultraortodossa di Gerusalemme? Il ragazzo arabo di Taibe? La colona che vive a Gaza?”. Ha ricevuto messaggi da tutti loro, lettori con vite diverse che si identificano nei suoi personaggi surreali. Un suo libro tradotto in arabo (L’autista di bus che voleva essere Dio) è andato esaurito a Ramallah durante la seconda Intifada (“temo che il titolo abbia fatto pensare a una storia di kamikaze”). [...] il suo fisico striminzito non è imparentato con i surfisti delle spiagge di Tel Aviv o con i ragazzi appena usciti dall’addestramento militare. “Se esiste qualcosa di comune alla mia generazione è l’incertezza, ci legano elementi negativi: il disincanto, la demistificazione. Non crediamo più alle soluzioni. Non importa se sei sionista o palestinese: non vediamo la pace dietro l’angolo. Vogliamo leggere e scrivere di quello che succede nelle nostre vite, non in questo conflitto. Samir El Youssef (con lui ha pubblicato la raccolta Gaza Blues, Edizioni e/o, n.d.r.) mi ha detto: leggo gli altri autori palestinesi e non trovo mai un gay, un tossico o uno semplicemente felice. Eppure ne conosco tanti nel mio campo profughi”. [...] Tra i parenti, Moshe Dayan, ministro della Difesa durante la guerra dei Sei giorni, ed Ezer Weizman, eroe dell’aviazione e capo di Stato dal 1993 al 2000, due figure che hanno segnato l’evoluzione delle Forze armate. [...] “Israele è piena di contraddizioni, la realtà è ambivalente. Io sono di sinistra, favorevole al ritiro da Gaza, ma capisco il dolore dei coloni non fanatici. Mia moglie fa parte di Machsom Watch, l’organizzazione che controlla il comportamento dei militari ai checkpoint. Quando vado con lei, dopo un’ora vorrei picchiare i soldati. Eppure so che le perquisizioni, la costruzione della barriera possono fermare i kamikaze. Le contraddizioni stanno ovunque intorno a me: conosco persone che partecipano a orge, ma non di shabbat, il giorno del riposo ebraico. Non lascerei mai questo Paese, troppa intensità. Come mi ripete un amico palestinese: preferisco una notte di coprifuoco a Gaza, che una notte d’inverno a Berlino”. Paragona l’assenza di politica dai suoi libri ai “film bourekas” (dal piatto tradizionale che accompagna le visioni collettive in videocassetta), commedie costruite tra farse e doppi sensi: “Mostrano una realtà molto semplice, fatta di piccoli personaggi con le loro furbizie quotidiane. Film coraggiosi perché negli anni Settanta era difficile non raccontare l’epica dello Stato sionista. Anche noi siamo stanchi della politica, vogliamo solo umanizzare le nostre vite. In India mi sono avvicinato a un lebbroso, mi ha chiesto da dove venissi, quando ho risposto Israele, ha detto: ‘Oh, povero povero ragazzo...’. E di noi due lui era quello che stava perdendo le dita”» (Davide Frattini, “Corriere della Sera” 18/7/2005).