Varie, 17 luglio 2005
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Consagra Pietro
• Mazara del Vallo (Trapani) 6 ottobre 1920, Milano 16 luglio 2005. Scultore. «[...] tra i più prestigiosi esponenti dell’astrattismo italiano, un ”padre della patria” [...] originario di Mazara del Vallo, cresciuto in una casa fuori dal paese, figlio di un venditore ”girovago”. Fu proprio ”l’andazzo scombinato della vita del padre”, scrisse, che gli impedì di arroccarsi nei mestieri che lo circondavano. Studiava e disegnava. E voleva uscire dall’isolamento in cui viveva. Nel 1944 arrivò a Roma, al seguito delle truppe alleate. Trovò aiuto nel Partito Comunista, a cui era già iscritto. Entrò nello studio di Renato Guttuso e cominciò un sodalizio strettissimo, destinato però a finire con una dolorosa frattura. Era quella una Roma artisticamente fervida d’idee, accesa da mille dibattiti, dalla voglia di creare qualcosa di nuovo e a cui la disciplina di partito non poteva che andar stretta. Consagra era tra quelli a disagio per il peso del partito, per linee e scelte formali verso il realismo socialista di cui Guttuso era custode e portavoce. La rottura arrivò dopo un viaggio a Parigi, l’incontro con le opere di Picasso, Léger, Giacometti. Il 15 marzo del 1947 Pietro Consagra, con Accardi, Attardi, Dorazio, Guerrini, Perilli, Safilippo e Turcato, fondò il gruppo ”Forma”. Fu allora che cominciò un lungo viaggio sulla via dell’astrazione proseguito fino ai giorni nostri, un viaggio nella scultura costruita attraverso il disegno: ”Il disegno contiene in sé tutta la mia scultura”. un percorso che attraverso il costruttivismo lo portò a scoprire la bidimensionalità dell’opera. Ha spiegato Consagra stesso: ”Ho scartato la tridimensionalità della scultura perché la frontalità, e quindi il carattere bidimensionale, mi è apparso subito come il più ricco di apertura. La frontalità è nata dentro di me come alternativa al totem, cioè alla scultura che doveva sorgere al centro di uno spazio ideale”. E per tutti gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la sua fu una scultura rigorosamente bidimensionale, una sorta di ciclo che Consagra intitolò ”Colloqui”. Poi arrivarono i ”Ferri trasparenti”, i ”Piani sospesi” e i ”Piani appesi” e con la Pop art il colore, i rossi, i gialli, i verdi. E poi i marmi, il granito blu del Brasile, il diaspro nero, il bianco di Macedonia per gli ”Addossati”, due lastre di forma simile ma di materiale e colore diverso accostate l’una all’altra. E l’idea di ”Città Frontale” portata nel cemento bicolore - bianco e nero - della scultura alta diciotto metri che creò per la fiumara riarsa di Tusa, in Sicilia, nelle opere che eseguì per Gibellina, che tentò di realizzare per Mazara. Con un’idea di fondo: ”Il bello non è un superfluo ma necessità”» (Paolo Vagheggi, ”la Repubblica” 17/7/2005). «Nel 1947 uno dei più grandi scultori italiani, Arturo Martini, firmava un saggio, La scultura lingua morta, in cui paventava l’imminente rischio di estinzione di un’arte troppo spesso piegata a discutibili esigenze celebrative; cinque anni dopo un giovane scultore siciliano, Pietro Consagra, sosteneva invece in un suo libro La necessità della scultura. Che cos’era cambiato in così poco tempo? Era accaduto che nel periodo di massimo tormento dell’Italia moderna, un gruppo di artisti avesse iniziato a ipotizzare una possibile via d’uscita dall’impasse figurativo senza rinunciare al valore civile dell’arte: si poteva essere marxisti, cioè impegnati, senza perdere di vista ciò che a un artista sta più a cuore, cioè la forma. Lo dichiarò Consagra nel 1947 a Roma, dove si era trasferito dopo gli studi all’Accademia di Palermo (era nato nel 1920 a Mazara del Vallo) insieme a colleghi come Piero Dorazio, Achille Perilli, Giulio Turcato, Carla Accardi e Antonio Sanfilippo: erano i fondatori di Forma 1, il gruppo che in quel periodo voleva riabilitare l’astrattismo dall’accusa di vuoto formalismo o, peggio, di pura decorazione. A quel messaggio, Consagra non ha mai rinunciato: non si tirò indietro quando, nel 1948, Palmiro Togliatti, emanava la celebre ”scomunica” contro l’arte astratta; non rinunciò neanche di fronte ai primi successi: l’invito, nel 1950, alla Biennale di Venezia, dove ritorna con sale personali nel ”56, nel ”60 e nel ”72; la partecipazione a Documenta di Kassel nel ”59 e nel ”64; la convocazione, nel ”62, al Guggenheim Museum di New York. Del resto, come poteva uno scultore che a Parigi aveva incontrato le leggende viventi dell’astrattismo, come Brancusi, Laurens e Pevsner, rinunciare alla libertà della forma e della composizione? E, allo stesso modo, come poteva un artista attivo in una fase cruciale della storia d’Italia, recedere da un impegno civile? L’impegno comportava non soltanto il lavoro nell’atelier, dove Consagra maturava, nei primi anni Cinquanta, una svolta decisiva, che da echi cubisti si evolveva verso strutture sempre più primarie, sculture come varchi perforati da tagli e feritoie (non senza riferimenti ad Hans Arp) che imponevano un unico punto di vista all’osservatore, proprio come facciate o portali architettonici. Bisognava essere intellettuali a tutto tondo, capaci di comunicare anche attraverso la didattica, e Consagra lo fa nel 1967 durante un soggiorno negli Stati Uniti, e l’attività critica e saggistica: di qui l’organizzazione, nel 1948, della mostra ”Arte astratta in Italia” a Roma, e più tardi la collaborazione alla rivista ”Civiltà delle macchine”, dell’ingegnere-poeta Leonardo Sinisgalli; e ancora l’autobiografia pubblicata nel 1980 con il titolo Vita mea. La vocazione all’avanguardia sulla quale Consagra ha costruito la sua vicenda, e che lo ha portato a tappe straordinarie, come la mostra a San Pietroburgo nel 1991 o l’inaugurazione presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma di una sala permanente, non è separabile dall’idealismo e dall’utopia. Non sono un caso la sua partecipazione alla creazione di Gibellina nuova, alla quale si accede attraverso la famosa ”Stella” dell’artista (intitolata ”Porta del Belice”) e l’adesione a ”Fiumara d’Arte”, il museo di scultura all’aperto allestito negli anni Ottanta a Tusa, nel Messinese. Forse Consagra, in quel progetto, individuava un suggestivo ritorno nella terra delle sue origini ma anche la realizzazione di un suo sogno, quello delineato in un libro edito nel 1969 con il titolo La città frontale: un’urbanistica ideale perché costruita dagli artisti» (Franco Fanelli, ”Corriere della Sera” 17/7/2005). «Sosteneva, con un piglio quasi da codice leonardesco: ”Disegnare è un po’ come pensare, lasciando delle tracce”. E che tracce, imperiose e volitive, ha lasciato[...] era dubbioso, il grande scultore delle masse assottigliate, trasparenti (gli piaceva filtrare nelle fotografie, con la sua espressiva fisionomia da intellettuale tormentato, macilento, come se il suo corpo-martire dovesse far parte di quel viluppo, solido ed insieme alitante); dubbioso, interrogativo, ma anche perentorio. Un ideologo, un polemista contro le ideologie ”standardizzate” (Scritti e polemiche, un suo libro, accanto alla Vita mia). Un suo autoritratto litografato, alla AndyWarhol, è come una dichiarazione di poetica: l’aria perplessa, storta, la bocca piegata, amaramente, una volontà solida di incidire nella realtà. Veniva dalla sanguigna, terrestre Sicilia, come molti del gruppo astrattista di Forma, che aiuta a nascere nel ”47, come l’Accardi, Sanfilippo, ma anche Titina Maselli (ce l’aveva con la pop art: ”ce la siamo voluta, e adesso?”). E poi quel prezioso, munifico Guttuso amico-rivale, che l’aveva ospitato nel suo studio, a Roma, e ritratto varie volte. Litigavano anche dentro la pittura. Amici di trippa, rivali di testa, eterni duellanti: urla dibattiti e riabbracci. Figurarsi, uno che in quegli anni togliattiani e Politecnico urlava: ”Io sono marxista e formalista”. Intanto, in Russia, per ”formalismo”, Sostachovic doveva riscrivere le sue sinfonie come un ragazzino e l’astrattismo veniva bandito, quasi una lebbra di Stato: l’affamapopoli. Consagra non se ne cura. Potremmo dire che fugge dallo studio di Guttuso per entrare nell’universo ossigenato e quasi suprematista di Malevic, dove ”la zavorra del mondo oggettivo” si può buttare nella spazzatura (di là Guttuso si dà dei pugni in testa). Guarda forse, allievo di Mazzacurati, per liberarsi soprattutto dalla sbornia neo-picassiana, guarda nella direzione forse di certe staccionate laviche di Leoncillo, indubbiamente alle ”forchette” di Capogrossi, ai tagli e alle combustioni di Burri e Fontana. Ma dove Burri è cedevole con la materia e plasticamente vulnerabile, più informale, Consagra è costruttivo, bellicoso nelle sue sagome di ferro, nei suoi scudi immaginari, nella sua litania d’ombre solide, shakespiriane, che avanzano rumorose nei nostri occhi. (’Gigantesche palette segnaletiche” obietta qualche stolto). Intanto esce subito dalla soffocante aria di casa, si fa più internazionale: va a Londra a Parigi, visita lo studio di Brancusi, di Laurens, conosce Hartung, sugge dalle ricche mammelle dell’astrattismo (tra gli italiani è in contatto soprattutto col polimorfo Magnelli). Pevsner non si fida, lo invita a casa, ma non in studio: rabbia e rimpianto. Si entusiasma per l’espressionismo astratto e i grattacieli di New York, incontra quella vera intelligenza che è Carla Lonzi, ad un certo punto sente la necessità di fare la ”mossa del cavallo” dei formalisti russi: ”un passo laterale”. Diventare ”architetto” delle forme: forme buche, trapassabili, sbilenche. Che han titoli significativi, poetici: Alabastro Addosso, Ferro vuoto (quasi un ossimoro) Addossato macedonia, Coro Impetuoso (che ha qualcosa della musica neo-antica di Petrassi). Lui la chiama ”bellezza del fuori posto, dell’inclinata, che governa alternativamente”. Capisce che il suo destino è all’aperto,nel dialogo con l’aria, con la vulnerabilità delle materie: legno, bronzo, onice, marmo. Crea una sorta di mossa, ventosa urbanistica della scultura (’La città è le strade che ha”, scrive in una poesia). Non è uno scultore da salotto, da camera: con la sua intensità perentoria e volitiva sente di dover invadere il mondo, di lasciare una traccia scomoda, appunto: una domanda fatta materia. ”Date la carica ai vostri dubbi, ai sospetti” scrive in un’altra poesia dedicata ai giovani architetti. ”L’architettura ha qualcosa d’imposizione. messaggio, abuso, furto o ingombro”. Lo sa che le sue opere vogliono, si autorizzano a non passare inosservate. Per la Gibellina ricostruita progetta una sorta di stella benigna, rifacendosi ad un sogno di Goethe: ma è come una forza caudina rigeneratrice. Il pellegrino deve comunque attraversarla, passarci dentro, scontrarsi. E proprio nella cittadina distrutta dal terremoto del ”68 ha chiesto di essere sepolto. Crea le sue scultore bifronti, che non hanno un’unica direzione di sguardo: spesso le appende, come se fossero delle ali arenate, dei tappeti di ferro, degli aquiloni incagliati all’aria rovente del suo pensiero costruttivo. Come fa con Colloquio del Vento, la grande opera che porta a Spoleto, complice Giovanni Carandente. Lì s’incontra con David Smith, con Calder, con Chillida. Lui che ha molto più di Cano e di Chadwik che non di Marini. Non la leggerezza lunare di Melotti, nè l’assemblage dadaista di Colla. Lui, l’ultimo grande utopista della materia offesa» (Marco Vallora, ”La Stampa” 17/7/2005).