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 2005  luglio 11 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 11 LUGLIO 2005

Dalle stazioni ferroviarie cominciano a sparire i cestini per la raccolta dei rifiuti, nascondigli ideali per bombe ed esplosivi. Claudia Fusani: «Gli altoparlanti rilanciano in continuazione annunci, dicono che sono in funzione ”sistemi di sorveglianza” e che ”i bagagli non vanno lasciati incustoditi”. Nelle metropolitane di Roma, Milano e Napoli spuntano uomini con le pettorine della vigilanza privata e agenti in divisa con i cani antiesplosivo». [1] Marcello Sorgi: «Dopo Madrid e Londra, è inutile nasconderlo, c’è l’Italia, con la sua capitale romana crocevia nevralgico di tanti intrecci internazionali, un Papa come Benedetto XVI affezionato all’Europa, le città d’arte affollate di turisti, la Torino delle Olimpiadi esposta a un palcoscenico globale». [2] Jena: «Il sentimento prevalente è la paura, adesso nel mirino ci sono Italia e Danimarca. Ma noi italiani siamo un popolo di ottimisti, non perdiamo la speranza, speriamo tocchi a loro». [3]

Nel mirino c’è di certo anche il Vaticano. Un responsabile della sicurezza: «Ipotesi nr. 1: un razzo contro la finestra dell’appartamento papale. Ipotesi nr. 2: una bomba tra la folla di piazza San Pietro. Ipotesi nr. 3: un autocarro imbottito di esplosivo che forza la Porta di Sant’Anna, il principale accesso allo stato del pontefice. Vado avanti?». Marco Politi: «C’è anche l’ipotesi nr. 4: un aereo che si schianta sulla basilica di San Pietro, ed è per questo che lo spazio aereo sopra la Città del Vaticano è da anni rigorosamente off-limits». [4] A Napoli non sono più preoccupati del solito. Una Loredana R. intervistata da ”la Repubblica”: «Il terrorismo è un’eventualità remota. Quando scendo dal treno i conti li faccio con scippatori, borseggiatori e drogati». [5] A Milano ricordano il precedente dell’11 maggio 2002, quando alla fermata Duomo della linea 1 un uomo dette fuoco a una bombola di gas sventolando un lenzuolo con scritte inneggianti ad Allah e alla causa islamica. [6] I più spaventati sono i romani. Tremaroma su Indymedia: «Negli orari di punta, se succede qualcosa a Termini, praticamente tutti morti». Camilla su Spazioforum: «Venezia ha Marghera, se buttano una bomba lì, salta il Nord-Est». [7]

Cosa succederebbe in Italia nel caso di una grande azione di terrorismo? La settimana scorsa hanno simulato l’esplosione di un container di acido cianidrico nel porto di Gioia Tauro: il personale non sapeva far funzionare le tende con le docce disinfettanti e alla fine i soccorritori hanno dovuto arrangiarsi «all’italiana». Quest’anno si contano su tutto il territorio nazionale già più di venti esercitazioni. Nel solo mese di giugno ce ne sono state ad Asti, Treviso, Parma, Matera, Caserta. In genere si tratta di test condotti con estrema serietà e realismo: il punto debole sembra essere l’integrazione del personale sanitario. [8] Meglio prevenire, ed il governo si sta attrezzando in questo senso. Fusani: «Espulsioni più facili per gli stranieri sospetti. Maggior controllo del territorio. Impiego dei militari anche, se necessario, con funzioni di pubblica sicurezza. Monitoraggio dei luoghi di ritrovo dei cittadini islamici, che non sono per forza le moschee ma anche le macellerie e i call center telefonici. E poi altre misure, più semplici, come il divieto per gli ambulanti, deciso a Roma, di sostare con le bancarelle fuori dalle stazioni della metro». [9]

Una mano potrebbe darcela la tecnologia. Marco Magrini: «Dall’11 settembre, un pugno di aziende - perlopiù americane e israeliane - ha moltiplicato i fatturati con nuove macchine per fiutare gli esplosivi, nuovi robot per disinnescare le bombe o per ”vedere” oggetti anche dietro a schermi metallici. Tutte tecnologie (potenzialmente) utilissime a prevenire attacchi come quello che ha abbattuto le Torri Gemelle. Per certo, si sa che la biometria - quel ramo della scienza che studia le misure umane dal volto alla forma della mano, dall’iride alle impronte digitali - sta facendo passi da gigante, al punto che sono già in commercio le prime applicazioni. Per il futuro, i laboratori americani stanno preparando l’analisi delle vene, il riconoscimento della pelle, l’esame genetico ”al volo”, la misurazione del battito cardiaco, il rilevamento degli odori del corpo e il riconoscimento delle orecchie. Ma da qui a immaginare un sistema per la prevenzione di tutti gli attacchi terroristici, ce ne corre». [10]

La lista degli obiettivi italiani conta 14 mila luoghi. [1] Per potenziare la security sulle rotaie, le Ferrovie dello Stato spenderanno nei prossimi due anni duecento milioni di euro. Il progetto per attrezzare l’accesso delle nuove linee ad alta velocità con varchi simili agli aeroporti pare irrealizzabile: «Qualcosa in più si potrà fare, ma è difficile pensare di perquisire il mezzo miliardo di persone che ogni anno passano in stazione», spiegano dalla holding. Le cose vanno peggio col trasporto pubblico locale: nonostante un dossier del Comitato interministeriale per la sicurezza del trasporto in superficie che richiedeva sensori per gas tossici e controlli nelle condotte dell’acqua in tutte le metropolitane, il settore non è stato oggetto di alcun stanziamento ad hoc ed al momento ci si limita al controllo con telecamere. Quanto agli aeroporti, Milano Malpensa e Roma Fiumicino (i nostri due hub intercontinentali) rispettano il regolamento Ue 2320/2002. Fiumicino andrebbe recintato, ma servono 10 milioni di Euro: la Bei (Banca europea degli investimenti) è pronta a prestarceli, a patto che qualcuno fornisca le garanzie del caso. Stesso discorso per i 20 milioni necessari all’acquisto degli apparati Tac destinati al controllo bagagli che Torino aspetta in vista delle imminenti Olimpiadi invernali. In Italia abbiamo anche 350 porti con traffico passeggeri e merci più 53 scali con cabotaggio nazionale e circa 560 navi: i terminal e la flotta godono della certificazione dell’International ship and port facilities security code adottato nel 2002. [11]

Purtroppo ci sono molti più obiettivi di quanti sia possibile proteggerne. Il professor Andrea Margelletti, presidente del Cesi ed esperto molto ascoltato dai nostri servizi di sicurezza: «Pensi ai cinema multisala. Pensi se sotto Natale dieci di questi terroristi se ne vanno in dieci cinema diversi con il loro zainetto sulle spalle. Al primo tempo si alzano, prendono un gelato ed escono. Quando sono in strada chiamano il numero del telefonino che hanno lasciato nello zainetto, sotto la poltrona. E l’impulso innesca l’esplosivo». Allora non c’è protezione? «Serve un’intelligence che riesca a infiltrare questi gruppi. Lo stanno già facendo da tempo, sperando che non sfugga niente». [12] Stefano Dambruoso, consulente giuridico dell’Onu: «L’intelligence europea, compresa quella italiana, lavora quotidianamente e quando riesce a bloccare un progetto di attentato evidentemente non può sempre disvelarlo». [13]

Il nostro Paese è esposto a un doppio rischio. Guido Ruotolo: «Quello rappresentato dalle cellule islamiche radicate in Italia che finora hanno svolto attività finalizzata ai fronti di guerra all’estero, dalla Cecenia all’Iraq, e che potrebbero adesso colpire il nostro Paese. E il rischio ”emulazione” che non è solo teorico, se è vero che a Brescia e a Reggio Emilia due maghrebini si lasciarono morire davanti a un McDonald’s e a una sinagoga facendo esplodere le proprie auto con ordigni artigianali e non provocando stragi solo per fatalità». [14] Per fortuna ci sono differenze sostanziali fra la Gran Bretagna e l’Italia. Dambruoso: «Per quanto ne sappiamo il ruolo dei fondamentalisti islamici che sono transitati nel nostro Paese è stato soprattutto di supporto logistico. Sappiamo di reperimento di fondi, passaporti...». [13] Secondo fonti dell’intelligence questo non basta per stare più tranquilli: «Gli stessi gruppi che fin qui abbiamo osservato, che in molti casi sono stati oggetto di iniziative della magistratura, e che finora si erano dedicati ad attività di supporto logistico, accoglienza ad ex combattenti di ritorno da Paesi del jihad, fabbricazione e traffico di documenti falsi, possono ora ricevere l’ordine di fare un attentato. Per un’azione che richieda la partecipazione di 30-40 persone non avrebbero alcuno bisogno di far venire gente da fuori». [15]

In Italia non ci sono ”islamici riconvertiti di terza generazione”. Giovanni Bianconi: «Si tratta di giovani nati in Europa che possono muoversi con gli stessi diritti degli altri cittadini, gente sotto i trent’anni con regolari documenti d’identità, più difficili da monitorare. Non più immigrati costretti a seguire certi percorsi e a rivolgersi a certi ambienti, per esempio per procurarsi i documenti, dove si possono intercettare più agevolmente. In Italia non c’è ancora questa situazione, ma l’assenza di integralisti aspiranti terroristi completi di cittadinanza non basta ad allontanare i timori. Ci sono elenchi di centinaia di nomi di persone sospette, sulle quali non sono state raccolte prove sufficienti a farle arrestare o finire sotto processo». [16]

Il fulcro della Jihad made in Italy ruota attorno ai salafiti. Cui si rifanno i gruppi combattenti della Tunisia e del Marocco. Claudia Passa: «Ai salafiti si riconducono le cellule monitorate da Sismi e Sisde in Lombardia (Milano, Cremona), in Emilia (Parma, Reggio), in Toscana e in Campania. In collegamento con la Gran Bretagna troviamo invece le cellule di Udine, Torino, Venezia, Vicenza, Vercelli e Desio. Tutte affiliate al movimento Takfir Wal Hijra (’anatema ed esilio”), che tra i suoi adepti vantava anche Mohammed Atta, il capo commando dell’11 settembre. Tutte in contatto con Abu Qatada al Falastini, imam londinese di origini giordane, collegato ad Al Zarkawi, finito in manette lanciando la seguente fatwa: ”Roma è la croce, l’Occidente è la croce e i romani sono i padroni della croce. L’obiettivo dei musulmani è l’Occidente. Noi apriremo Roma”. Il messaggio di Qatada, considerato il leader europeo di Al Qaida, fu trovato la prima volta nella moschea di Cremona, in possesso di quel Mohamed Trabelsi che al Belpaese aveva mandato a dire: ”Vogliamo colpire l’Italia perché quel cane di Berlusconi appoggia quel cane di Bush”». [17]