Augusto Frasca, Il Tempo, 02/06/2005, 2 giugno 2005
Trionfo epocale di Berruti, Il Tempo, 02/06/2005 L’inizio del dopoguerra era atterrato illeso sulle ruote di Bartali e Coppi, il disco di Consolini, le lame di Mangiarotti ed Irene Camber
Trionfo epocale di Berruti, Il Tempo, 02/06/2005 L’inizio del dopoguerra era atterrato illeso sulle ruote di Bartali e Coppi, il disco di Consolini, le lame di Mangiarotti ed Irene Camber. Con Zeno Colò, Dordoni e il K2. Con i pugni di Mitri, Giannelli, D’Agata e Loi. Con Pietrangeli, Nencini, Ribot, Ubbiali, Maspes, Messina, Baldini e Fiorenzo Magni. Pagando dazio alla maledizione con lo schianto di Superga. Quando una pasticca di chinino avrebbe potuto scongiurarlo, avrebbe vissuto il primo gennaio più triste nella storia dello sport con la perdita del ciclista di Castellania, proprio in apertura di quella che risultò essere, lo sport protagonista, la migliore stagione vissuta dalla società italiana dal ’45 in poi. Di quella stagione, la vittoria ai Giochi di Roma d’uno studente torinese di 21anni contro l’impero della velocità nera statunitense fu qualcosa più d’un miracolo italiano. Sarebbero passati anni e decenni, si sarebbero aperte negli annali del nostro sport imprese agonistiche di pari, talvolta superiore livello, ma quella corsa che il 3 settembre del ’60, con la premonizione di un volo di colombi che sembrarono diventare materia sotto i piedi dell’atleta, quella corsa che costrinse l’Italia dell’epoca, non solo la schiera iconoclasta dei cultori d’atletica, ad abbracciarsi dinanzi a radio e televisori per l’affermazione d’uno dei loro, ebbene, quella corsa dette immediatamente il senso d’un irripetibile atto unico. Quattro anni prima, il ragazzo aveva rischiato che l’ottocentesca severità d’un padre gli impedisse di correre i 200 metri "perché pericolosi per la salute". Alle 15.50 del 3 settembre, in semifinale, Livio Berruti aveva annichilito gli avversari correndo in scioltezza gli ultimi 40 metri e bloccando il cronometro ad uno stupefacente 20"5, primato mondiale uguagliato. A partire da quel momento, il territorio del mezzo giro di pista non dovette sembrargli ostile, tale fu il distacco con cui, accosciato a terra timoroso d’aver speso troppo in semifinale, s’attardò ad assistere al riscaldamento degli avversari. Fu in quei minuti che Ray Norton, Lester Carney, Stonewall Johnson, Marian Foik, Abdoulaye Seye, tre americani, un polacco, un franco-senegalese, compresero come la loro condanna fosse stata annunciata con due ore d’anticipo. Berruti, il tecnico Giuseppe Russo a dieci metri, iniziò a muoversi quaranta minuti prima del colpo di pistola dello starter Primo Pedrazzini. Il distacco che gli segnava il volto aveva un’unica spiegazione: Berruti non conosceva emozioni. Oggi, l’istantanea di quella finale è ancora intatta nelle immagini di Romolo Marcellini, regista d’una commovente pellicola su quelle meravigliose giornate romane. La corsa in curva di Berruti non era umanità in azione. Era una linea disegnata da Raffaello. A 90 metri dall’arrivo, uno scarto imprevedibile, un irrazionale irrigidimento dell’azione avrebbe potuto privarlo della vittoria. Non accadde. Solo un leggero cedimento finale, reso ancor più visibile dalla violenta rimonta del nero meno atteso, Carney, secondo sul filo a sette centesimi da Livio. I cronometri furono bloccati ancora a 20.5 manuale, 20.62 elettrico. Grande velocista anch’egli, inesausto creatore di scherzi nei confronti dello schivo ragazzo nativo di Stroppiana, travestito da venditore di bibite, il suo avversario Sergio Ottolina vide la finale dei 200 romani dalla tribuna autorità, a due passi dal Presidente Gronchi ed a fianco della povera ma bella Marisa Allasio. Fu l’unica volta che i suoi amici lo videro piangere. 24 ore dopo, al Villaggio Olimpico, l’astuta regia di un fotografo intrecciò le mani di Livio a quelle di una gazzella del Tennessee, ventesima di 22 figli, una gamba immobile fino agli otto anni. La gazzella era Wilma Glodean Rudolph, regina dei Giochi. La foto fece il giro del mondo, ma l’incrocio tra le due nobiltà della pista rimase una finzione. Livio Berruti ebbe in premio la Fiat 500 destinata ai campioni olimpici. Nelle tasche, un assegno di 800mila lire del Coni, un altro da 400mila per i due primati mondiali. Rientrando giorni dopo a Torino alla guida di una 600, fu inseguito, bloccato e multato per eccesso di velocità da una monolitica pattuglia della Stradale. Augusto Frasca