Note: [1] Claudio Rizza, ཿIl Messaggero 1/7/2005; [2] Jagdish Bhagwati, ཿCorriere della Sera 30/6/2005; [3] Anna Maria Merlo, ཿil manifesto 1/7/2005; [4] Claudio Gallo, ཿLa Stampa 1/7/2005; [5] Alessandro Merli, ཿIl Sole-24 Ore 1/7/2005; [6] Marinell, 4 luglio 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 4 LUGLIO 2005
«Sa come diceva lord Peter Bauer? ”Gli aiuti consistono nel tassare la povera gente nei paesi ricchi e passare i soldi alla gente ricca dei paesi poveri”». [1]
Vada a dirlo a quelli che muoiono di fame... [1]
«Lo so, ogni giorno nel terzo mondo muoiono 50 mila persone: di povertà, fame, stenti, malattie che non riescono a curarsi o che nessuno ha diagnosticato. La media è di un bambino ogni tre secondi: più di 100 bambini muoiono nel tempo che serve a fumare una sigaretta. Più di due milioni di bambini africani muoiono prima di aver compiuto il primo anno d’età. [1] Ma non è una questione che si risolve con un generico altruismo». [2]
No? [2]
«Negli anni Cinquanta, i primi sostenitori dell’assistenza allo sviluppo - l’economista e intellettuale svedese Gunnar Myrdal, il pioniere dell’economia dello sviluppo Paul Rosenstein-Rodan - proposero che gli aiuti fossero concessi sulla base di pure motivazioni altruistiche, ma ciò apparve subito un’utopia. Da allora, più pragmaticamente, i fautori degli aiuti li hanno sempre presentati come una soluzione illuminata che rispondeva al migliore interesse dei donatori stessi. La Guerra fredda ha favorito per anni un tale approccio: senza il nostro sostegno, il mondo in via di sviluppo sarebbe caduto in mano ai sovietici. L’argomento ha poi perso efficacia e si è passati a motivazioni meno convincenti. La sa quella storiella?». [2]
Racconti. [2]
«Un povero e un ricco pregano in chiesa. Il ricco dice: ”Signore, ti prego di darmi un milione di dollari perché devo rimborsare un prestito”. E il povero: ”Signore dammi un dollaro, perché io possa comprare del pane e non morire di fame”. A quel punto il ricco, estraendo dal portafoglio un biglietto da cento dollari e infilandoglielo nella tasca, gli intima: ”Prendi questi e compra tutto il pane che ti serve. Ma esci di qui perché ho bisogno di tutta l’attenzione di nostro Signore!”». [2]
andata così con l’ultima cancellazione del debito? [3]
«Il mese scorso i sette Paesi più ricchi del mondo hanno deciso di annullare un debito multilaterale del valore di 40 miliardi di dollari che incombeva sulle finanze di 18 paesi poveri, 14 dei quali africani. [3] Ma deve sapere che in questi casi vengono poste alcune condizioni: lotta alla corruzione, potenziamento del settore privato, abbattimento degli impedimenti agli investimenti stranieri. Mark Curtis, il direttore del World Development Movement, lamenta che i media di solito svicolano sul fatto terribile che per ottenere gli aiuti questi paesi debbono ”accettare” i consigli della Banca mondiale e dell’Fmi. Ciò comporta la privatizzazione delle aziende e l’apertura dei mercati alla liberalizzazione. Una cosa che ha sempre avuto come effetto l’aumento della povertà e dell’ineguaglianza insieme a un ambiente più sicuro per le corporation. George Monbiot ha scritto sul ”Guardian” che ”Il piano del G-8 per salvare l’Africa è poco meno di un’estorsione del racket”». [4]
E allora? [2]
«L’obbligo morale è un concetto facilmente comprensibile per le élite cosmopolite, ma non funzionerà a livello più ampio se manca un forte legame di empatia fra le nazioni o le comunità di paesi diversi. Oltre due secoli fa Adam Smith poneva la questione in modo mirabile nella sua Teoria dei sentimenti morali, sostenendo che un europeo di grande umanità non avrebbe chiuso un occhio per tutta la notte al timore di perdere un dito mignolo, ma che avrebbe dormito sonni profondi se un cataclisma avesse colpito milioni di altri esseri umani all’estero - a condizione di non dover assistere mai alle loro sofferenze. Con Internet e con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione, la teoria di Smith è superata. Oggi abbiamo continuamente sotto gli occhi le epidemie e le carestie in ogni parte del mondo e non possiamo più dormirci sopra tranquillamente. Per i fautori degli aiuti, quindi, il momento è giusto: siamo nelle condizioni politiche in cui diventa possibile promuovere un aumento consistente». [2]
per questo che hanno organizzato i concerti del Live 8? [5]
«Il potere delle star è tale da travalicare anche quello di una stella mediatica come era indubbiamente Giovanni Paolo II: il problema del debito dei Paesi poveri, a lungo sollevato dal Papa, venne preso seriamente in considerazione dai leader dei ”grandi” della terra solo quando scesero in campo i rocchettari Bono e Bob Geldof». [5]
Su questo sono tutti d’accordo? [5]
«Mica tanto: alcune Ong temono che senza il supporto mediatico di qualche ”celebrity” diventi difficile far passare politiche peraltro giuste o sostenere campagne meno dotate di mezzi. La paura è che i policy-maker, soprattutto i più attenti alle opportunità offerte ai fini di politica interna da occasioni come il vertice del G-8, possano poi mancare di impegnarsi altrettanto per iniziative che non portano con sé il glamour offerto dalle rockstar alla campagna della cancellazione del debito. stato avanzato inoltre il sospetto che i politici siano pronti a varare impegni il cui costo è limitato e in alcuni casi sostenuto da altri (come nel caso della cancellazione del debito dovuto al Fondo monetario, che deve arrangiarsi con le proprie risorse), ma assai più riluttanti ad altre operazioni che richiedano maggiori risorse anche in termini di persistenza. [5] Ma qualcuno ci va anche più pesante». [4]
Cioè? [4]
«Monbiot ha chiamato Bono e Geldof ”bardi dei potenti” usando il Live 8 e il G-8 scozzese come un punching ball: ”So a che gioco stanno giocando. - ha scritto - Credono che lodare gli uomini più potenti del mondo sia più convincente che criticarli. Il problema è che così facendo trasformano la campagna internazionale del movimento per la giustizia globale in un’impresa filantropica. Fanno pressione sui leader del G-8 perché facciano di più per aiutare i poveri ma tacciono sulle loro malefatte”. Mick Hume su Spiked Online ha scritto che il carrozzone del Live 8 sta diventando ”sempre più paternalistico come i vecchi vezzi colonialisti”. Peter Hitchens sul Mail ha rovesciato i fatti notando come siano i bambini affamati dell’Africa a salvare la pericolante fama di alcune decrepite rock-star. [4] E intanto i Paesi ricchi continuano a percepire gli interessi sui debiti accumulati dai Paesi africani in decenni di tribolazioni, guerre, sciagurati regimi dittatoriali». [6]
Di quanti soldi parliamo? [6]
«Tanti. L’Africa subsahariana spende per i propri debiti più di quanto spenda per la salute dei propri abitanti. Secondo gli autori del rapporto della Commissione per l’Africa, quasi la metà dell’aiuto all’Africa subsahariana è tornato ai Paesi ricchi; secondo le previsioni di questo passo i 315 milioni di persone che soffrivano di povertà e di fame nel 1999, diventeranno 400 milioni da qui al 2015; il 34% della popolazione è sottonutrita, e la fame uccide più che tutti gli altri immensi guai, dall’Aids alla malaria alla tubercolosi; la mortalità infantile, un dramma di per sé, si ripercuote anche sulla capacità dei paesi a programmare un proprio futuro». [6]
Il G-8 di questa settimana cambierà le cose? [3]
«Parliamo di un’istituzione nata nel ’75 come ”incontro attorno al caminetto” tra i leader dei sette paesi più ricchi del mondo (a cui si è aggiunta di recente la Russia, ma solo per le questioni politiche). Da quando si è trasformato in una kermesse del potere mondiale è il luogo delle grandi dichiarazioni di principio e delle promesse non mantenute. I due temi scelti quest’anno da Blair - la lotta alla grande povertà e il riscaldamento climatico - potrebbero aggiungersi alla lista, già lunga, delle promesse non mantenute. Sei anni fa, per esempio, il G7 aveva promesso di cancellare 100 miliardi di dollari di debito dei paesi più poveri, ma a tutt’oggi il programma non è stato attuato che per 35 miliardi. Secondo l’Onu, 54 paesi nel mondo sono oggi più poveri e più indebitati che nel ’90. Ancora oggi i finanziamenti promessi al G8 di Genova per il Fondo mondiale di lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, mancano all’appello. E l’idea di migliorare le sorti del mondo povero attraverso una maggiore apertura dei mercati del nord si scontra con la realtà: la parte dell’Africa negli scambi mondiali è crollata dal 10% al 2% negli ultimi vent’anni». [3]
Ma l’Africa non è ricca di risorse? [7]
«Ha ragione: gas naturale, diamanti, oro, platino, cromo, ferrolega, carbone. Ha mai sentito parlare di Ken Saro-Wiwa? A novembre fanno dieci anni da quando morì impiccato insieme ad altri otto attivisti Ogoni. Il loro crimine consisteva nell’aver osato sostenere che la Nigeria non era affatto povera, bensì ricca, e che le decisioni politiche erano prese nell’interesse delle società multinazionali occidentali mantenendo la popolazione in una miseria senza speranza. Saro-Wiwa diffuse l’idea che le vaste ricchezze dei giacimenti petroliferi del Delta del Niger avrebbero dovuto lasciare dietro di sé qualcosa di più che fiumi inquinati, terreni agricoli devastati dal fuoco, aria putrescente e scuole fatiscenti. Il Movimento per la Sopravvivenza del popolo Ogoni chiedeva che la Shell risarcisse la popolazione dalla cui terra, a partire dagli anni Cinquanta, era stato estratto petrolio per un valore prossimo ai 30 miliardi di dollari. La società petrolifera si era rivolta al governo in cerca di aiuto e l’esercito nigeriano aveva puntato le armi contro i manifestanti. A dieci anni di distanza, il 70 per cento dei nigeriani vive tuttora con meno di un dollaro al giorno e la Shell continua a incassare enormi profitti». [7]
tutta colpa delle multinazionali? [7]
«Sarebbe facile dirle di sì. Le dirò invece che in molti casi c’è il problema opposto: i governi non riescono a convincere le imprese dei Paesi ricchi che investire in Africa è un affare. Finora per molte società, soprattutto inglesi o francesi, affermare di avere un buon business in Africa voleva dire scoprire il fianco all’accusa velata o esplicita di sfruttamento e di neo-colonialismo. Richard Morgan di Unilever spiega che adesso c’è una maggiore comprensione dell’importanza del ruolo del settore privato nel rilancio dell’economia africana. Si può finalmente affermare senza timori che l’Africa è un buon posto dove investire: per Unilever, che è presente in 14 Paesi, è la regione che registra la maggiore crescita al mondo». [8]
Insomma, con chi se la devono prendere gli africani? [1]
«Cifre alla mano, gli economisti più cinici hanno già provato che in molti Stati africani, dove la corruzione è l’unica legge riconosciuta, dove presidenti e capi di governo intascano gli aiuti girandoli solo ai propri fedelissimi, i soccorsi umanitari fanno più male che bene. Perché tutti restano immobili in attesa del sussidio e non si sforzano nemmeno un po’ per rimboccarsi le maniche e costruirsi un futuro. Sarebbero, insomma, vittime di quella sindrome da welfare distorto che colpiva i disoccupati inglesi: rifiutavano il nuovo lavoro per continuare a incassare l’assegno di disoccupazione». [1]
I governi africani sono molto corrotti? [1]
«La corruzione appartiene al Dna del del sistema tribale, dove il senso di appartenenza alla propria tribù moltiplica gli egoismi soprattutto se prolifica in un Paese disperato, dove esistono zone con un livello culturale che coincide con la nostra Età del bronzo, dove nessuno ha la più pallida idea né della democrazia, né di cosa sia uno Stato o l’economia di mercato. [1] La tesi più diffusa per spiegare il mancato sviluppo dell’Africa subsahariana è che il continente soffra di una crisi di governabilità. Ma è una tesi sbagliata. Molte parti dell’Africa sono governate relativamente bene, soprattutto tenendo conto dei redditi molto bassi dei paesi. Guardando alle graduatorie e ai criteri di valutazione di organizzazioni come la Banca mondiale, Freedom House, Transparency International, un numero crescente di africani ha ormai la leadership e la qualità di governo per poter ottenere risultati economici. Il problema è che non ne ha i mezzi. La chiamano ”trappola della povertà”». [9]
Sarebbe a dire? [9]
«In poche parole, sono troppo poveri per riuscire a innescare processi di sviluppo economico o anche per poter raggiungere una crescita di base. Con un risparmio interno estremamente basso e con flussi di investimenti esteri altrettanto bassi, le attuali dinamiche dell’Africa non offrono speranze di uscita dalla povertà. Jeffrey Sachs, che è consigliere speciale del segretario generale Onu Kofi Annan, dice che se vogliamo capire perché l’Africa subsahariana è la regione del mondo che ha più bisogno di investimenti, dobbiamo tenere presenti i 5 fattori strutturali che l’hanno resa particolarmente vulnerabile alla povertà: costo molto elevato dei trasporti e mercati piccoli; bassa produttività dell’agricoltura; altissima incidenza di malattie ed epidemie; una lunga storia geopolitica negativa; penetrazione molto lenta della tecnologia estera». [9]
E quanti soldi servono per risolvere questi problemi? [9]
«Si parla di un raddoppio degli aiuti nel periodo 2005-2015, in modo da raggiungere almeno lo 0,5 del Pil entro il 2010 e lo 0,7% entro il 2015. [9] Ma non è una cosa semplice: Bob Geldof, con la consueta diplomazia, la settimana scorsa aveva intimato al primo ministro canadese Paul Martin di ”promettere che entro il 2015 porterà gli aiuti canadesi ai Paesi non industrializzati allo 0,7 per cento del Pil: altrimenti non si presenti neppure al G8”. Il problema, gli ha fatto notare in un duro editoriale il ”Toronto Sun”, è che per i contribuenti il costo della manovra pro-Africa sarebbe di circa 50 miliardi di euro. La stessa somma che Martin ha appena deciso di stanziare per il sistema sanitario. ”Va trovata una somma più ragionevole, la richiesta di Geldof nasce da delirio di onnipotenza - ha concluso il quotidiano -. Le popstar spesso non sanno quel che dicono. Farebbero meglio a chiudere la bocca e aprirla solo per cantare”». [10]
Vuol dire che le promesse saranno nuovamente disattese? [9]
«Speriamo di no. in gioco la credibilità e il funzionamento del sistema internazionale. Se nel 2005 non si faranno passi decisivi i Paesi poveri ma ben governati non riusciranno a realizzare una strategia mirata al raggiungimento di quelli che all’Onu chiamano Millennium Goals e la già debole fiducia nelle promesse della comunità internazionale in materia di lotta alla povertà svanirà del tutto». [9]