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 2005  giugno 28 Martedì calendario

Morte di un sovrano, Il Messaggero, 28/06/2005 Caro Signor Gervaso, sono un vecchio ufficiale in pensione di Cuneo e ho sempre amato la storia del mio Piemonte e della dinastia sabauda

Morte di un sovrano, Il Messaggero, 28/06/2005 Caro Signor Gervaso, sono un vecchio ufficiale in pensione di Cuneo e ho sempre amato la storia del mio Piemonte e della dinastia sabauda. Mi tolga una curiosità: è vero che quando Vittorio Emanuele II morì, al suo capezzale non si trovava la Bella Rosina, la moglie morganatica da cui aveva avuto due figli, che amava più di quelli che gli aveva dato la legittima consorte Maria Adelaide? Franco Ferrero - Cuneo E’ vero, caro generale. Vittorio Emanuele e la ”Bella Rosina” si erano visti l’ultima volta il 29 dicembre 1877 a Torino, dove il re accusò i primi sintomi del male che lo avrebbe portato alla tomba. Rientrando nella capitale, lui che soffriva terribilmente il caldo, avvertì uno strano freddo, che nemmeno i cappotti e le coperte degli aiutanti di campo riuscirono a lenire. Al Quirinale lo attendeva una fitta agenda di appuntamenti ai quali, pur se indisposto, non voleva sottrarsi. Ai medici non disse nulla ma, il 5 gennaio, un malessere, accompagnato da una misteriosa febbre, si esacerbò al punto che dovette mettersi a letto. Il primo a visitarlo fu il professor Saglione; poi, giunse a palazzo il professor Baccelli; quindi, da Torino, il luminare Bruno. La diagnosi fu la stessa di nove anni prima a San Rossore: pleuro-pneumonite acuta, interessante soprattutto il polmone destro, con complicanze di ”migliare” (eruzione cutanea). Si attivarono le terapie del caso, mentre i bollettini medici, esposti nella prima anticamera del quartiere reale, informavano i visitatori - cortigiani, diplomatici, parlamentari, ministri, gente comune - del decorso clinico. Anche il Papa chiese ripetutamente notizie sulla salute del suo vecchio, ma devoto, nemico. La situazione precipitò l’8, e in modo così repentino che si decise di convocare per telegrafo a Roma il duca d’Aosta, la principessa Clotilde e il principe di Carignano. Vittorio respirava sempre più a fatica, sebbene l’ossigeno gli desse qualche sollievo. Ma era, ormai, chiaro che non ce l’avrebbe fatta. A questo punto, il professor Bruno si sentì in dovere di rivelargli la gravità del male. Fu subito chiamato il canonico Anzino, cappellano maggiore del re, mentre Pio IX allertava il proprio sacrista, monsignor Marinelli. Che sarebbe andato al Quirinale per confessare e comunicare il sovrano. Gli avrebbe anche estorto - è la parola - la ritrattazione, già negata a San Rossore nove anni prima. Ma l’Anzino lo prevenne confessando frettolosamente il monarca e amministrandogli il viatico. Mezz’ora prima, alle undici e mezza del mattino del 9 gennaio, Vittorio aveva dettato il suo ultimo, laconico, affettuoso dispaccio alla moglie morganatica: «Speravo di vederti ancora stamattina. Sono agli estremi e per di più la migliare fuori». Rosina non c’era, e non solo perché inferma alla Mandria. E non c’era la figlia Vittoria. C’era, invece, il figlio Emanuele II, in ginocchio ai piedi del letto, accanto al fratellastro, e futuro re, Umberto. Alle 14.35 il sovrano, seduto sul letto, appoggiato sull’anca sinistra, emise un lieve sospiro. Quindi, reclinato il capo da quella parte, chiuse per sempre gli occhi. Il professor Bruno gli si avvicinò, accertò che il cuore non battesse più e con solenne commozione annunciò: «Il primo Re d’Italia è morto. Pare che dorma e riposi, dopo aver compiuto un grande lavoro». Questa l’aulica versione ufficiale del trapasso di Vittorio. Versione di cui nessuno sembrava aver mai dubitato. Ma la principessa Maria Gabriella ne ha fornita un’altra, che riferiamo per scrupolo storiografico. Il monarca non sarebbe spirato nella disadorna stanza del Quirinale, ma a Villa Savoia dove, pur non sentendosi bene, era andato a caccia di lontre. Qui lo avrebbe fulminato un attacco di polmonite. Se la cosa si fosse venuta a sapere, lo scandalo sarebbe stato enorme. Il primo re d’Italia non poteva non morire nel proprio letto e nel proprio palazzo, sede e simbolo della dignità sovrana. Senza frapporre indugi, la salma, ancora calda, sarebbe stata trasferita su una carrozza e qui fatta sedere. Raggiunto il Quirinale, avrebbe trovato posto e pace nella camera di Sua Maestà. Insomma, una macabra messinscena. Il cordoglio della nazione fu vasto e sincero, e i funerali imponenti. Il cadavere venne imbalsamato e la camera ardente allestita nella grande Sala degli svizzeri. Una folla immensa rese omaggio a Vittorio Emanuele II, le cui esequie si svolsero il 17 gennaio. Dopo aver attraversato il centro della città, fino a piazza del Popolo, il corteo si diresse verso piazza del Pantheon, dove giunse poco prima di mezzogiorno. Alle tredici e trenta la bara fu deposta all’interno del maestoso edificio, i cui altari erano illuminati e parati a bruno. Qui, il primo re d’Italia ricevette un’altra assoluzione e, alle quattordici e trenta, la cerimonia si concluse. Roberto Gervaso