Massimo Numa, La Stampa, 01/07/2005, 1 luglio 2005
Killer di Bogogno, La Stampa, 1 luglio 2005 BEH, avrei bisogno degli occhiali da vista. Così posso fare poco, non posso neanche leggere o guardare la tv»
Killer di Bogogno, La Stampa, 1 luglio 2005 BEH, avrei bisogno degli occhiali da vista. Così posso fare poco, non posso neanche leggere o guardare la tv». Ad Angelo Sacco, il killer di Bogogno, il carcere non dispiace. Anzi, ha reagito benissimo al brusco impatto con le sbarre e i cortili disadorni dell’istituto, lui che nel suo passato non aveva mai avuto una macchia. All’europarlamentare della Lega Nord, Mario Borghezio, ieri in visita nella casa circondariale di Novara, l’autore della strage di lunedì scorso appare ben diverso dall’identikit tracciato dai compaesani: «E’ un tipo chiuso, un eremita, uno che non parla, sempre blindato in quella casa», dicevano. Invece, rotto il ghiaccio («Scusi ma lei chi è? Ah un onorevole, già, la sua faccia non mi è nuova»), Sacco parla di sé, del suo futuro, delle sue speranze, dei suoi piccoli e grandi problemi, mentre affronta, con un certo ottimismo, la sua nuova vita dietro le sbarre. Eccolo lì, in braghette corte beige, una sdrucita t-shirt verde acqua passata dall’amministrazione. Lo spiega compito, la voce monocorde, senza alcun accento, con un eufemismo quasi ironico: «Sono uscito di casa un po’ di corsa, senza niente, e non ho ancora ricevuto nulla dai parenti». Addio alla polo verde, ai pantaloni di tela cachi con le Timberland di cuoio chiaro. «Sembrava un gentiluomo di campagna», disse un ufficiale dei Gis subito dopo l’arresto, alla mezzanotte di lunedì, mentre nell’aria c’erano ancora i gas irritanti esplosi dai carabinieri. Ora ha le scarpe da ginnastica bianche. I capelli brizzolati sono lavati di fresco, i baffetti sale e pepe maniacalmente curati. Molto abbronzato. Gli occhi sono chiari, gelidi, e ti guardano in faccia, dritto negli occhi. «Sacco, come va?», esordisce Borghezio. «Beh, se avessi gli occhiali andrebbe meglio. Potrei rendermi utile a qualcosa, a qualcuno. Così, ogni movimento è un guaio, una sofferenza. Ho chiesto alla direzione, mi hanno detto che non ci sono problemi, basta che i miei familiari me li facciano avere. Sa, ne ho proprio bisogno». Invece dell’isolamento, constatato l’assoluto stato di serenità del pluriomicida già dalle prime ore dopo il blitz, i responsabili hanno deciso di inserirlo subito nella comunità della casa, una serie di fabbricati che sfiorano i quartieri residenziali del centro. Decisione coraggiosa ma davvero azzeccata, per ora. Sacco è ospite di una cella a due posti, con un letto a castello. Lui è in quello di sotto. Sopra, c’è il suo compagno di sventura, Enrico Lazzara, accusato dell’omicidio della moglie, Alda Vavenotti, condannato a 18 anni di carcere. Un delitto, come si dice, efferato: la donna fu uccisa con una mazzuola di legno. Lazzara ha confessato e adesso fa il bibliotecario. E’ un appassionato di libri. Enrico ha accolto Angelo con simpatia, ed è subito nato un feeling un po’ speciale. «Sono pronto a dargli una mano, con i libri - ha spiegato Sacco -, basta però che mi mettano in condizione di poter far qualcosa di utile qui, anche per gli altri». Borghezio, che non è certo un uomo incline al buonismo, soprattutto con questo genere di delinquenti, cerca di capire il suo reale stato d’animo, al di là dello sguardo francamente gelido del mancato ingegnere di Bogogno, che «talvolta sfoggia pure un sorrisetto, tra l’ironico e il sarcastico». Borghezio: «Devo dire che è assolutamente sereno, a suo agio; si esprime con estrema precisione, ci tiene a raccontare qualcosa di sé, ma senza sbilanciarsi troppo. E’ un uomo diffidente, molto attento alle parole, questo è chiaro». E la strage? «Non ne parla. Dice ”il fatto”, ”l’episodio”, ”le circostanze”. Mette le mani avanti e si blocca bruscamente». «Per piacere, non voglio dire nulla di quelle ”cose”: non sono ancora pronto». Va bene, allora parliamo d’altro. Cosa si aspetta, adesso? «Dedicarmi ai miei studi tecnici. Io sono stato un perito informatico di ottimo livello. Ho lavorato per l’Aermacchi, dove mi occupavo di software militari. Poi, per molti anni, ho fatto il consulente per un’importante azienda di computer di Milano. Ho fatto anche il tecnico commerciale, ho viaggiato in tutto il mondo, io... Ho fatto corsi di aggiornamento di informatica negli Stati Uniti». Insomma, ci tiene a far sapere che il suo curriculum è di prim’ordine. Borghezio gli suggerisce di aiutare i giovani detenuti nello studio dei computer: «E’ una buona idea, io sono disponibile, se la direzione è d’accordo, potrei dedicarmi all’insegnamento». Così come le sue capacità di cacciatore e tiratore, almeno quelle riconosciute da tutti, in paese. A Bogogno lo ricordano passeggiare da solo, silenzioso, con sottobraccio il suo amato «sovrapposto» aperto, in sicurezza. Altro che la vita assurda nell’alloggio soffocante al secondo piano della villetta di Bogogno, dove si era autorecluso per un anno e mezzo a meditare sul fallimento del suo sogno, quello di avere un’azienda tutta sua, a Varese, nel settore appunto dell’informatica. Morale: bancarotta e sequestro pure della casa di famiglia, dove abita anche l’amatissima anziana mamma. Un incubo. Da esorcizzare con la strage. Ieri mattina alle 13 stava guardando interessato la partita di calcio, valida per il campionato dei detenuti: «Mi hanno già chiesto se voglio giocare, ma preferisco fare l’arbitro, mi sa che son troppo vecchio per il pallone. Adesso mi propongo. Vedremo nei prossimi giorni». Uno s’immagina: sono passati quattro giorni dalla strage di Bogogno e sicuramente il killer s’è pentito. Chissà, magari la notte avrà gli incubi, penserà a quel povero motociclista ucciso così, tanto per far numero. O avrà, impressa sulla rètina, l’ultima immagine di Giampiero, il carabiniere quasi amico, massacrato senza pietà, trasformato anche dopo morto in un bersaglio per i suoi pallettoni. Ai bimbi di pochi anni rimasti orfani, alle persone che resteranno invalide per sempre. Invece no. Ha già sostenuto tre colloqui. «Mi è stato molto utile vedere il cappellano del carcere. E’ una persona che ha una grande esperienza, una grande umanità. Io sono un credente, anche se non andavo spesso a messa, non più di una volta all’anno, credo. Bene anche l’educatore. Pessimo l’incontro con lo psichiatra. Quello voleva darmi dei farmaci, dei calmanti, chissà cosa. Io sto benissimo, non ne ho bisogno. Quel signore non lo voglio più vedere. Assolutamente». Massimo Numa