Pietro Citati, La Repubblica, 23/06/2005, 23 giugno 2005
Ritratto di San Francesco di Pietro Citati La Repubblica, 23 giugno 2005 Quando leggiamo la Vita del beato Francesco di Tommaso da Celano, abbiamo una curiosa impressione
Ritratto di San Francesco di Pietro Citati La Repubblica, 23 giugno 2005 Quando leggiamo la Vita del beato Francesco di Tommaso da Celano, abbiamo una curiosa impressione. Sembra che, prima della nascita e della conversione di Francesco d´Assisi, la rivelazione di Cristo si stesse esaurendo. Stava là, meravigliosa, nelle parole evangeliche: ma, nei secoli, quelle parole (secondo Tommaso) si erano sbiadite o erano quasi dimenticate; la luce era avvolta di caligine, una malattia mortale aveva colpito il mondo, e il suo respiro fisico e spirituale era soffocato. Noi non comprendiamo. Prima di Francesco, il dodicesimo secolo aveva conosciuto una straordinaria fioritura spirituale: Ugo di san Vittore, Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Ildegarda di Bingen, Riccardo di san Vittore; e come al soffio dello spirito, piccole chiese, immense cattedrali, pitture, statue e bassorilievi avevano testimoniato che Cristo non era mai stato così vivo, e che i Vangeli non erano mai stati così letti e trasformati in nuovi libri. Eppure, la Vita del beato Francesco - la più bella vita di santo che sia mai stata scritta - ripete che Francesco aveva riacceso una fiamma che stava per spegnersi. Secondo Tommaso da Celano, Francesco giunge sulla terra nel momento stabilito. In quell´istante preciso, cancellando le tenebre, appare a tutti come un "uomo nuovo", un nuovo inizio, senza veri precedenti nella tradizione cristiana. Non si era mai visto un uomo come lui. Non si poteva paragonarlo a nessun altro. Ma quest´ "uomo nuovo" non cerca di stabilire diverse fondamenta, costruendo case e chiese diverse. Al contrario, Francesco sembra un restauratore. Qui ripara simbolicamente una vecchia chiesa cadente: là ne ricostruisce un´altra, quasi in rovina; rispetta le fondamenta, i sacerdoti, le leggi, le funzioni. Come Cristo, viene a compiere la vecchia legge, e ne annuncia un´altra radicalmente nuova. Così, forse, fanno sempre i grandi spiriti religiosi. Come quelle di Paolo e di Agostino, la vita di Francesco era la vita di un peccatore. La sua esistenza non conosceva quegli sviluppi cauti, lenti, moderati, che sembrano risvegliare l´impressione della completa armonia di uno spirito. Paolo, Agostino e Francesco erano creature spezzate: Paolo aveva conosciuto in sé stesso la puntura del male assoluto, Agostino aveva peccato prima di possedere una coscienza. Francesco era stato un giovane superbo, vanitoso, arrogante, lascivo, che ammirava gli eleganti e frivoli spettacoli della cavalleria, "incedendo nobilmente nella piazza di Babilonia". Tutti i lettori moderni rimangono affascinati da questi spettacoli, e ricordano con gioia i canti francesi a cui Francesco si abbandonava nei boschi, anche durante la sua predicazione religiosa. Eppure, secondo Tommaso da Celano, Francesco era stato "uno schiavo del peccato", come Agostino bambino. Non si può diventare santi, secondo una grande tradizione cristiana, se prima non si è vissuti nelle tenebre e nel peccato. Per Agostino e Francesco, il peccato era come un segreto nutrimento celeste. La conversione di Francesco avviene con passi discreti, leggeri e indiretti: con cenni e piccoli simboli, evitando l´aspetto tremendo e spettacolare delle conversioni di Paolo o Manzoni. Dio non interviene, come se disdegnasse apparire. Poiché il regno dei cieli è un "tesoro nascosto" che viene conservato in segreto, anche la conversione di Francesco deve avvenire nel silenzio e nel segreto. Ma Dio, se non appare, possiede molte arti sottilissime. Prima colpisce Francesco con la malattia, che non lo abbandonerà mai, perché senza conoscere la malattia non si può varcare la soglia che fa uscire da questo mondo. Poi gli sottrae l´amore "per la bellezza della natura": proprio il dono che Francesco ritroverà dopo la conversione. Infine gli fa vedere in sogno la casa di Assisi piena di splendide armi cavalleresche - lance, selle, scudi - ; e gli lascia comprendere che la sua sarebbe stata un´altra, diversissima cavalleria: un´impresa religiosa. L´ultimo cenno è il più decisivo: Dio lo invita ad entrare in una grotta, e a leggervi il Padre nostro, la preghiera che si pronuncia nel segreto della propria stanza, come Cristo aveva iniziato la sua missione rivelando il Padre nostro ai discepoli. Dopo la lettura del Padre nostro nella grotta, Francesco continua a frequentare le cavità della terra: antri, spelonche, fosse, chiese dimenticate, sepolcri abbandonati diventano la sua casa prediletta, come se volesse conoscere le ultime verità degli abissi. Forse, per un cristiano, non ci sono verità più preziose. Così Francesco comincia a coltivare in sé lo spirito delle grotte, discendendo verso tutto ciò che è infimo. Frequenta i poveri, gli umili: cura i lebbrosi: diventa un servo, anzi un "servo inutile", che vive come se non esistesse; viene colpito "da oltraggi e insulti, spogliato, bastonato, legato e incarcerato. Fa il pazzo furioso: muove i piedi come un buffone, "suscitando lacrime di dolore". Continua a discendere sempre più in basso, perché aveva letto nei Salmi (secondo una lunga tradizione) che il Salvatore aveva detto di sé: "Io sono come un verme, non un uomo". Immagina che questo fosse il compito che Cristo gli aveva assegnato: discendere sempre più profondamente; e poi, con un sublime capovolgimento, un balzo tra di buffone e di atleta, raggiungere la sommità del regno dei cieli. *** Quest´uomo di peccato e malattia, di grotta e vermi, di terra e abiezione, non guarda mai verso la terra, il luogo al quale sembra appartenere, perché la terra è il regno della pesantezza. Guarda verso la luce di Dio: egli è soprattutto una creatura di luce e di fuoco, come rivela un episodio imitato da un passo famosissimo della Bibbia. Nel Libro dei Re, un carro di fuoco, trascinato da cavalli di fuoco, rapisce in un turbine il Profeta Elia nei cieli. Alla Porziuncola, accade un avvenimento ancora più straordinario. Verso la mezzanotte, mentre i frati dormono o pregano in silenzio, appare all´improvviso un carro di fuoco luminosissimo, sul quale si trova un enorme globo simile al sole, che rischiara la notte, penetra dalla porta e si gira più volte per la stanza, illuminando i frati che riposano o pregano. Francesco è dunque il nuovo Elia, forse superiore ad Elia; perché non sale sopra il carro di fuoco, ma diventa egli stesso luce e fuoco. Mentre rischiara i corpi dei frati, la luce-fuoco di Francesco penetra nei segreti dei loro cuori, e li rivela al suo spirito, che li scruta da vicino o da lontano, anche nel sogno e nella rivelazione, superando ogni difesa, chiarendo i misteri, le parole taciute e le omissioni. Qualsiasi oscurità svanisce davanti a quello sguardo luminosissimo e acutissimo. La sua luce capisce i cuori senza il soccorso della ragione: l´arte di Cristo. Poi il fuoco di Francesco si riflette. Mentre il carro gira velocemente nella stanza, all´improvviso i frati si accorgono di comprendersi a vicenda, e di vedere nelle coscienze degli altri. La predicazione di Francesco fa cadere i limiti, le barriere e i sospetti nati tra le persone, ritrovando la comunità universale della luce. Davanti al suo sguardo, gli uomini sono luci che rispecchiano altre luci. Anche la parola di Francesco arde come il fuoco. Mentre predica agli uccelli, ai fiori e agli uomini, il suo ignitum eloquium, "discorso di fuoco", deriva la propria forza dall´ispirazione divina. Le parole fluiscono melodiosamente dalla sua bocca, come torrenti di miele, rivolgendosi alle moltitudini come a un uomo solo. Qualche volta, Francesco conosce l´esperienza tragica degli aedi greci: se venivano abbandonati dalle Muse, essi non possedevano più l´immensa memoria del passato e del futuro, le acque delle sorgenti ispiratrici si esaurivano, i colori e i suoni li lasciavano, e potevano raccontare soltanto le notizie o i rumori della propria vita. Quando Dio non fa sentire a Francesco la propria voce, egli cerca inutilmente di preparare un lungo discorso, pieno di sapienza umana: ma non ricorda quello che ha pensato, le parole scivolano via dalla memoria, la sua mente si vuota. Senza vergogna, confessa alle migliaia di persone raccolte di non sapere dire niente. Tace, benedice: fino a quando il fiume dell´eloquenza divina torna a colmarlo fino all´orlo. Da quella luce chiara, che comprende e si riflette nei cuori, dipendono i doni che la tradizione attribuisce a Francesco. Era semplice, chiaro, puro, secondo Tommaso da Celano e gli scrittori francescani. Oggi noi non riusciamo più a capire cosa significhi la "semplicità" di Francesco: come non riusciamo a comprendere perché Platone e Plutarco dicessero che Apollo (questo complesso di opposizioni e di contraddizioni) era "semplice" e "chiaro". Ma Tommaso da Celano aggiunge: Francesco era "semplice per grazia, non per natura". La semplicità nasce dunque, in Francesco, quando un dono ultraterreno, la grazia, discende nel suo cuore, trasformando la sua figura dolorosa e drammatica e sciogliendola in una sola voce, in una sola acqua, in un solo fuoco, sovranamente naturali. Un´altra forma della luce è la suavitas: la dolcezza. Francesco conosce ogni particolare della Passione di Cristo: le preghiere vane nel Getsemani, il sudore di sangue, l´abbandono da parte di Dio sulla croce, la corona di spine, la flagellazione, la lancia nel costato, la morte, le tenebre attorno al dio morto. Eppure, non fa che versare dolcezza sopra le pagine dei Vangeli. Quando parla della Croce dice che il suo peso è "soave", e le "ferite" di Cristo sono "dolci". Se avesse visto le Crocifissioni di Grünewald e di Hulbein il giovane, dove la Passione svela il suo lato tremendo, credo che sarebbe svenuto di terrore, come, a Basilea, forse svenne Dostoevskij, davanti al cadavere livido di Gesù, morto per sempre. *** Quando leggiamo il Libro delle opere divine, di Ildegarda di Bingen, abbiamo l´impressione che Dio - l´invisibile, l´inimmaginabile, l´indescrivibile - sia presente ed attivo, mobile e guizzante nelle cose create, come la loro nascosta forza trionfale. Dio è un "fuoco inestinguibile", che accende le scintille viventi: è un soffio, un vento, che percorre velocemente il mondo; l´acqua che fa crescere i semi; la viriditas, che feconda le montagne e i pensieri. In Francesco, la presenza di Dio non si avverte mai in modo così sensibile. Noi sappiamo soltanto che la natura è creazione di Dio; e quindi dobbiamo amarla con gioia e lodare ed esaltarne tutti gli elementi, nei quali egli si rispecchia. Sono parole che abbiamo già ascoltato nella tradizione cristiana. Nella Vita di Tommaso da Celano, Francesco possiede una qualità molto più rara. "Con gli occhi del cuore", penetra i segreti delle creature dell´universo: nessun altro spirito prima di lui aveva conosciuto questa straordinaria virtù di penetrazione e di comprensione della Natura. Qualche volta, ci sembra che Tommaso ritenga questo dono superiore a quello delle stimmate, come se capire la natura fosse un dono più prezioso che ripetere nel corpo i dolori della Passione di Cristo. Così già ora, mentre predica agli uccelli e alle piante, Francesco è entrato "nella libertà della gloria dei figli di Dio", e appartiene al regno dei cieli. Forse Tommaso immagina che Francesco sia il nuovo Adamo: l´Adamo rovesciato, l´Adamo dei tempi nuovi, illuminato dalla luce di Cristo. Adamo dominava gli animali per comando di Dio: li ordinava; e dava loro i nomi - cioè li faceva entrare, come scrive Claus Westermann, in un mondo umano, creando attorno a sé il proprio regno. Francesco non potrebbe mai cancellare dalla memoria i primi capitoli della Genesi, uno dei testi dove si riconosceva. Ma non vuole dominare gli animali, né ordinarli secondo gerarchie, né attribuire loro dei nomi: solo Dio ha il potere e la conoscenza che permettono di dare i nomi. Le gerarchie della natura non significano nulla: esistono ordini e gerarchie simboliche, che non corrispondono alle gerarchie apparenti, poiché il Salvatore ama farsi rappresentare nella forma di un verme - la creatura più infima. Quando contempla amorosamente gli uccelli, le lepri, i conigli, i pesci, le piante, i fiori e persino le pietre, Francesco riconosce che tutte le creature sono vive. Con un gesto, le dispone sullo stesso piano: figure sensibili e insensibili, animali, pesci e fiori. Mentre cammina tra le campagne, Francesco predica alle creature. Capisce le loro lingue, perché conosce ogni segreto della Natura: e gli uccelli e i pesci e le pietre lo ascoltano con la medesima gioia e comprendono la sua lingua - una lingua assolutamente particolare, che nessuno aveva mai ascoltato. In quel momento, ogni figura creata possiede la propria lingua. Tutti insieme amano e lodano il Salvatore, che a sua volta ama le creature: così che un incessante riflesso speculare si stabilisce nell´universo, tra il basso e l´alto, l´alto e il basso, Dio, l´Uomo e la natura, la natura, l´uomo e Dio. Francesco aspetta. Come diceva Paolo, un giorno anche la creazione avrebbe conquistato, tra i gemiti e i dolori del parto, "la libertà della gloria dei figli di Dio", entrando nel regno dei cieli. Francesco ama specialmente gli uccelli, perché sono lieti, colorati, cinguettano, volano, assomigliano agli angeli e ai frati, e Cristo dice di loro "che non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, eppure il Padre celeste li nutre". Non so se Francesco o Tommaso da Celano avessero ascoltato una famosissima storia greca ed islamica. Tiresia, "il più grande tra i profeti di Zeus", e Salomone, il re-mago della tradizione ebraica ed islamica, comprendono anche loro il linguaggio degli uccelli; e di lì derivano la profezia e la conoscenza dei misteri. Francesco e gli uomini del tredicesimo secolo conoscevano molte cose che noi ignoriamo: forse la leggenda del re-mago che regna sopra il visibile e l´invisibile era giunta fino a Francesco e ai suoi frati. Ma la sua "scienza dei misteri" non è un´arte magica. Come un´ispirazione segreta, gli giunge da Dio, il quale gli insegna la lingua di tutte le creature dell´universo, alle quali parla con la sua eloquenza fluidissima. *** La parola stimmate compare una sola volta nel Nuovo Testamento; e, come tutte le parole uniche della tradizione cristiana (e forse di qualsiasi tradizione) ha una ricchezza incalcolabile. Alla fine della Lettera ai Galati, Paolo dice: ego enim stigmata Domini Jesu in corpore meo porto; "infatti porto nel mio corpo le stimmate di Gesù Signore". Non sappiamo cosa voglia dire esattamente Paolo. Forse la sua non era una parola esatta, come sovente accade nelle Lettere, poiché cercava di raccogliere un alone di significati e di suggestioni. Paolo era marchiato a fuoco come uno schiavo: soffriva e ricordava la passione di Cristo: il segno era il rovescio della circoncisione ebraica; lo faceva appartenere a Gesù e anticipava la sua salvezza celeste. Secondo gli studiosi, Paolo non pensava a una stigmatizzazione corporea come quella di Francesco, quasi dodici secoli più tardi. Cosa sia avvenuto sulla Verna, forse nell´agosto o settembre 1224, è ancora più difficile da raccontare. I testi divergono tra loro; e, come scrive Claudio Leonardi, non si può narrare la storia delle stimmate di Francesco (o negare o affermare che siano avvenute), ma soltanto cercare di interpretare la luce simbolica irradiata dai testi. Parlerò soltanto della testimonianza, meravigliosa e cifrata, nella Vita di Tommaso da Celano. "Un giorno - scrive Tommaso - Francesco si accostò al sacro altare costruito nell´eremo dove dimorava, prese il codice dove era scritto il sacro Vangelo, e ve lo appoggiò con reverenza. E così, prostrato in orazione..., pregava umilmente il Signore... che si degnasse di mostrargli la sua volontà". Quando finì le preghiere, Francesco aprì il Vangelo "con pietà e timore". Lo aprì tre volte: ogni volta, gli si presentavano agli occhi passi che preannunciavano i dolori della Passione di Cristo. Qualche tempo dopo, mentre era solo nella Verna, Francesco ebbe una visione: una visione divina, dice Tommaso, non un sogno. Scorse un uomo, simile a un serafino, inchiodato a una croce: L´uomo-serafino aveva le braccia distese e i piedi uniti, due ali spiegate sopra il capo, due protese per volare e le altre gli velavano il corpo. Francesco non poteva avere dubbi. L´uomo-serafino sospeso sopra di lui ripeteva due passi biblici. Uno di Isaia, dove serafini con sei ali stanno sopra il trono di Jahve; un altro di Ezechiele, dove quattro Cherubini, con visi di uomo, di leone, di toro e di aquila, zampe di animali, e quattro ali, esprimono la presenza splendente e infuocata di Jahve. La corrispondenza con i testi biblici era quasi perfetta. Credo che Francesco sapesse che le immagini alate di Isaia e di Ezechiele avevano avuto molta eco nella tradizione medioevale, come segni di Cristo. L´uomo crocifisso era Gesù, di cui aveva letto tre volte, nei giorni passati, i dolori e le tribolazioni. Francesco non poteva meravigliarsi se non gli appariva nella sua essenza. Il Prologo del Vangelo di Giovanni gli diceva che noi non possiamo vedere Dio: egli stesso aveva aggiunto in uno dei suoi scritti, le Ammonizioni, che non possiamo nemmeno scorgere il figlio nella sua essenza; sia il Padre sia il Figlio sia lo Spirito sono per natura "immutabili, invisibili, ineffabili, incomprensibili, inaccessibili". Tutto era chiaro. Il Figlio doveva apparirgli così: velato e trasformato, con le sei ali spiegate o piegate del serafino-cherubino di Isaia e di Ezechiele. Nelle bellissime pagine di Tommaso, accade qualcosa che ci stupisce profondamente. Ai piedi dell´uomo-serafino e della croce, Francesco godeva per la bellezza radiosa dell´angelo: si rallegrava per la dolcezza con cui lo fissava: si spaventava per la croce e il dolore delle ferite; era insieme triste e lieto. Con scrupolo angoscioso, rifletteva sulla visione: si affliggeva nel tentativo di comprenderla; e non comprendeva quello che avrebbe dovuto capire al primo sguardo - il serafino, il Crocefisso, la croce - , perché a Cristo aveva consacrato la vita. Il passo mi sembra singolarissimo. Non capisco se lo sembrasse anche a Tommaso da Celano, o se egli pensasse che la strana cecità di Francesco apparteneva al "grande mistero" della visione della Verna. Intanto, il Cristo-serafino (il nome di Cristo non viene mai pronunciato) non diceva una sola parola: fissava Francesco in silenzio; poiché la rivelazione doveva essere esclusivamente visiva, senza parole umane, come molte rivelazioni mistiche. A poco a poco, la visione penetrava nell´animo di Francesco: mentre discendeva sempre più in profondo, sulle mani e sui piedi cominciarono a formarsi dei segni di chiodi, persino chiodi di carne color ferro, e sul fianco destro apparve una cicatrice sanguinante, prodotta da una lancia. Sotto lo sguardo intenso del serafino, il corpo di Francesco imitava i dolori della Crocefissione: lo sguardo divino diventava trafittura, ferita, segno, sangue, chiodo color ferro, cicatrice al costato. Tutto ciò che si era compiuto quasi dodici secoli prima sul Golgota venne copiato coscienziosamente, come un pittore copia una tela o uno scultore una statua. La copia fu religiosamente fedele. Per la seconda volta, Francesco non comprese: oppure la sua conoscenza era esclusivamente fisica; la conoscenza del corpo, nella quale un cristiano ripone tanta fiducia. Poi Francesco capì anche con lo spirito: il suo corpo era divenuto, come dirà san Bonaventura, il "ritratto visibile" di Cristo. Le stimmate verbali di Paolo - quella schiavitù, quell´appartenenza, quella vera circoncisione, quell´anticipo di salvezza - si erano trasformate, forse per la prima volta nella storia cristiana, in stimmate fisiche. La parola unica del Nuovo Testamento era lì, davanti agli occhi dei francescani stupiti e sconvolti, evidente come una rappresentazione sacra. Ugo di san Vittore l´aveva annunciato un secolo prima (ricorda Chiara Frugoni): "la forza dell´amore è tale che è necessario che tu sia come colui che ami". Ricordando un luogo di san Paolo, Tommaso da Celano scriveva: "Questo mistero è grande e indica l´eccellenza d´un amore speciale; ma vi si cela un impenetrabile disegno e un segreto venerando che crediamo sia noto soltanto a Dio". Specialmente un fatto resta misterioso a Tommaso e ai lettori. Sulla Verna, Francesco aveva imitato nel corpo la Crocefissione di Cristo, i dolori, le ferite e i chiodi: od era andato oltre, intravedendo l´essenza del Figlio, che egli considerava ineffabile? Tutto lascia credere che, sotto lo sguardo del serafino, Francesco abbia ripetuto soltanto i segni della passione. Ma un altro passo di Tommaso dice: "Uscendo da sé [in estasi], egli contemplava in una gloria indicibile ed incomprensibile Cristo seduto alla destra del Padre": dunque Francesco aveva conosciuto l´essenza del Figlio. I due passi si contraddicono: forse Tommaso lo sapeva: egli non capiva "il grande mistero", oppure voleva lasciar cadere un velo sopra ciò che considerava impenetrabile agli occhi umani. Pietro Citati