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 2005  giugno 26 Domenica calendario

Stampa Articolo 26 Giugno 2005 IL FASCINO DEL FALLIMENTO di Barbara Spinelli GRAZIE all’astuzia politica con cui sa cogliere le opportunità a lui propizie, grazie all’eccellente uso delle arti persuasorie, grazie a un’economia nazionale che ha dato non pochi frutti e che gli ha permesso di vincere ben tre elezioni in otto anni, Tony Blair sta esercitando sulle élite europee - e in particolare sulle italiane - un fascino certo e intenso

Stampa Articolo 26 Giugno 2005 IL FASCINO DEL FALLIMENTO di Barbara Spinelli GRAZIE all’astuzia politica con cui sa cogliere le opportunità a lui propizie, grazie all’eccellente uso delle arti persuasorie, grazie a un’economia nazionale che ha dato non pochi frutti e che gli ha permesso di vincere ben tre elezioni in otto anni, Tony Blair sta esercitando sulle élite europee - e in particolare sulle italiane - un fascino certo e intenso. Chi ha osservato il modo in cui ha esordito come Presidente di turno dell’Unione, il 23 giugno al Parlamento europeo, ha avuto la netta impressione di trovarsi davvero, come Londra suggerisce, davanti a un sentiero che si biforca. Il primo è il sentiero vecchio, che precipiterebbe verso l’inanità vuota degli Inferi e che i referendum in Francia e Olanda avrebbero condannato all’insignificanza. Su questo sentiero camminerebbero gli europeisti, sconfessati e mesti. Molto sbrigativamente vengono chiamati gli ideologi, i retori dell’Europa che non c’è e non ha da esserci. Il commentatore americano Andrew Moravcsik, che incanta i filobritannici in Italia, parla addirittura di bande di idealisti, che per lungo tempo avrebbero sequestrato l’Europa rovinandola, soprattutto a partire dagli Anni 90 quando la cultura del Sessantotto - postnazionale, cosmopolita, irrealistica - s’impersonò nel ministro tedesco Joschka Fischer. Il secondo sentiero sarebbe quello della felice ascensione verso un’Europa rifatta, infine emancipata da ideologie o utopie. Blair ne sarebbe l’incarnazione, grazie a un discorso e un agire che non indugia nel passato ma coniuga progetti e realtà in trasformazione, ideali e modernità, staticità dell’essere e mobilità del divenire. A lui apparterrebbe il futuro, se mai l’Europa avrà futuro; in lui varrebbe la pena sperare, se si vuole che una vera Unione nasca. L’ora della vecchia retorica, delle carriere nazionali costruite sull’europeismo vecchia maniera, della vecchia logora locomotiva guidata dal duo franco-tedesco, sarebbe scoccata. Lo sostiene tra gli altri Angelo Panebianco, sul Corriere del 21 giugno. Perché i lettori si ritrovino tuttavia, in questa disputa che non è solo italiana ma che in Italia ha toni specialmente confusi, vale la pena distinguere bene tra quel che Blair dice sui contenuti delle politiche continentali, e quel che sembra dire (ma non dice) sui mezzi necessari affinché questa sua linea o eventuali altre linee prendano la forma di una politica europea condivisa e collettiva. Blair ha idee molto precise e giuste sui vizi di strategia economica in numerosi Paesi del continente: è una strategia che evita riforme, che è condizionata da antichi riflessi corporativi o protezionisti, e che non ha dato i risultati pretesi. I disoccupati nel continente sono 20 milioni, le spese dell’Unione sono per il 43 per cento inghiottite dall’agricoltura, gli investimenti in educazione e ricerca son minimi. Su tutte queste cose Blair ha ragione, ed è bene che qualcuno ricordi la semplice verità evocata da Mario Monti: se si continua così, senza scommettere sulla competitività mondiale dell’Europa, quest’ultima diverrà un sobborgo di Shanghai. Quel che manca in Blair non è dunque l’idea di quel che occorra fare, delle finalità mutate che urgerebbe perseguire. Quel che manca è la chiarezza e la coerenza sulla forma e i mezzi. E forma in Europa vuol dire: edificare le istituzioni adatte affinché dall’Europa vecchia ne esca una nuova; fare in modo che queste comuni istituzioni funzionino e non siano invece immobilizzate - come a tutt’oggi succede per ferrea volontà sia francese sia britannica - dal diritto di veto dei singoli Stati; evitare che si perpetui lo squilibrio fra l’Europa governata dagli Stati e l’Europa che già da tempo è sovrannazionale (politica agricola, commercio, moneta, gran parte del diritto in economia). Blair è chiaro e spesso convincente sui fini: sulle scelte sociali, sulla necessità di riformare le sinistre europee. poco chiaro e tendenzialmente muto sulle istituzioni e l’eventuale statualità che l’Europa in quanto tale può dare a se stessa, suddividendo meglio tale statualità con gli Stati nazione. Quel che Blair non sembra vedere è la metamorfosi del concetto stesso di statualità, visibile a partire dal momento in cui gli europei hanno perduto la preminenza mondiale che avevano, dopo il disastro ’14-45 e a seguito della costruzione europea. La statualità non è più in Europa quella descritta nell’800 da Weber: un corpo che esercita il pieno «monopolio territoriale di coercizione». La coercizione è caduta, e con essa son svaniti monopolio e territorialità. Non ho mai sostenuto che lo Stato nazione sia morto, come accusa Panebianco. Ho solo detto che il monopolio territoriale non esiste più, che le mansioni si suddividono tra Stati e istituzioni già federaliste. E che l’Europa fin d’ora non è semplice cooperazione inter-nazionale ma qualcosa di ibrido, in parte federale in parte confederale o inter-nazionale. Per far fronte a questa nuova realtà e non per contentare l’europeismo si è pensato di redigere una costituzione che fosse adatta a tale ibrido. Può darsi naturalmente che il mezzo sia insufficiente, e in parte lo è perché la convenzione di Giscard è stata timidamente reverenziale verso gli Stati, innovando poco e conservando molto. Ma era pur sempre un mezzo nuovo, anche se parte degli europei l’ha respinta (non tutti gli europei, e per questo è così importante che le ratifiche continuino: può darsi che alla fine una maggioranza di Stati e popoli approvi la costituzione), e chi lo critica non può dimenticare che di questo si tratta e non di altro. Si tratta di trovare un mezzo che funzioni e di non confondere quel che non va in alcun modo confuso: linee politiche e forma della politica, scelte ideologiche e istituzioni, fini e mezzi. Abbiamo necessità della Gran Bretagna, delle libertà inglesi, del «capitalismo britannico»: vero. Ma questo non c’entra con le istituzioni, così come non c’entra con le istituzioni quel che Pera dice sull’Europa che dovrà esser reinventata come «casa comune dei moderati e riformisti». L’Unione deve divenire casa comune che si regga in piedi e conti nel mondo, dentro la quale saranno possibili politiche di varia natura. E se l’Inghilterra non sarà d’accordo con gli Stati che vogliono quest’unità stretta resterà fuori a causa della sua ostilità all’Europa politica, non a causa del modello economico che Blair difende. Nei prossimi mesi si vedrà quel che Blair vuol fare in concreto: se la sua visione della mondializzazione e di un nuovo modello sociale potrà esser messa a servizio dell’Unione, o se il laburismo la metterà a servizio di Londra e d’un sabotaggio in Europa. Finora comunque non è dei federalisti la retorica europea tanto criticata, ma è di Blair. Raramente essa ha raggiunto cime sì alte (è consigliabile leggere per intero il discorso) se per retorica s’intende quel che ne scrive il dizionario Battaglia: «modo di parlare e scrivere eccessivamente ridondante, prolisso, pletorico, ottenuto con espressioni enfatiche applicate a luoghi comuni, privo di un valido contenuto e di corrispondenza con la realtà». Come definire altrimenti l’enfasi europeista di Blair, quando tutto quel che egli usa fare è esercitare il diritto di veto per frenare l’Unione? Il vertice sul bilancio è stato volutamente fatto naufragare da Londra (Günther Nonnenmacher ne è convinto, sulla Frankfurter Allgemeine del 24 giugno) nonostante la presidenza lussemburghese avesse alla fine proposto un compromesso che aumentava le spese di ricerca di più del 30 per cento e che riduceva la quota della politica agricola a un terzo del totale (poco meno di dieci anni fa la quota superava il 50 per cento). Ma soprattutto: è impossibile investire sulle industrie del futuro se il bilancio comune resta infimo, e Blair non meno di Chirac ha votato perché esso non superasse il misero 1 per cento. Quanto ai settori d’avvenire e alla nuova economia, che Blair giustamente invoca, c’è il piano di Prodi presentato a Lisbona nel 2000, che il governo inglese e altri bloccano con l’aiuto, ancora una volta, d’un diritto di veto cui non rinunciano. una paralisi che Blair accentua con la sua magniloquenza sull’allargamento: un allargamento che deve proseguire rapidamente - egli dice - mentre per l’approfondimento istituzionale c’è tempo di riflettere e far pause. In realtà tutto questo tempo non c’è, anzi. Non a caso la democristiana Angela Merkel ha detto alla Frankfurter Allgemeine che l’Europa deve presto ricominciare, possibilmente col duo franco-tedesco e sforzandosi di non distruggere un modello sociale. L’idea inglese e americana di un allargamento ad infinitum senza costruzione solida di comuni istituzioni non piace né al possibile successore di Schröder, né al liberalgollista Sarkozy. Non son contenti neppure gli europei orientali, che hanno constatato l’inconsistente e divisivo verbalismo britannico. Un verbalismo che ha carezzato i nuovi aderenti per poi mollarli, quando occorreva pagare per l’allargamento. Da questo punto di vista a Bruxelles non c’è stata una Waterloo britannica contro il centralismo franco-napoleonico. C’è stata, come affermano i più accorti in Gran Bretagna stessa, un’occasione di leadership perduta da Blair. Blair sarà giudicato sui fatti. Si vedrà se le sue parole hanno una qualche relazione con i mezzi necessari all’Unione per poter ottenere, come fine, una politica dotata di senso della realtà. A tutt’oggi, egli non è il rappresentante della nuova Europa, che negli scorsi anni si è cercato di rafforzare in vista della mondializzazione (con il mercato unico, l’euro, il lavoro dei convenzionali per dare una costituzione all’unità politica). il rappresentante della vecchia Europa, paralizzata da veti e calcoli nazionali brevi, che neghittosamente dice: basta con gli esperimenti! Per quanto riguarda la linea politica Blair è un innovatore, a sinistra. Per quanto riguarda la forma politica dell’Europa è un profittatore delle vecchie storture e dunque un conservatore a pieno titolo. Credere il contrario significa cedere al fascino oscuro della tabula rasa, della sconfitta e di un’Europa defunta. Stampa Articolo