La Repubblica 03/06/2005, pag.49 Irene Bignardi, 3 giugno 2005
Intervista a Tony Curtis nel giorno del suo ottantesimo compleanno (Bignardi) Gli ottant’anni di Tony Curtis divo seduttore venuto dal Bronx
Intervista a Tony Curtis nel giorno del suo ottantesimo compleanno (Bignardi) Gli ottant’anni di Tony Curtis divo seduttore venuto dal Bronx. La Repubblica 03/06/2005. Roma. Tony Curtis compie ottant’ anni oggi. Ha avuto cinque mogli (e in effetti spesso nelle interviste ha ammesso: "Mi sposavo molto"). Ha avuto sei figli, tra cui la bellissima Jamie Lee Curtis, nata dal matrimonio con Janet Leigh (e uno, Nicholas, morto per overdose, ma non si poteva fare nulla per lui, spiega, impossibile salvarlo dalle sue abitudine autodistruttive). Ha avuto periodi di alcolismo, di depressione acuta e, racconta sereno, di droghe, dalla cocaina all’ Lsd, "ma ora l’ unica che prendo è la pillola per la pressione". Ha girato, se ho contato bene, oltre novanta film di ogni genere e peso e lo si ricorda forse per cinque o sei o sette: lui dice che di dodici è fiero (ma non li elenca), e vive una vecchiaia senza rimpianti e piena di rimozioni (a giudicare da quello che racconta e non racconta di sé ai giornalisti che continuano ad andarlo a trovare nella sua casa di Las Vegas), allietata dalla presenza di una moglie che ha quarantacinque anni meno di lui ed è molto bella, Jill Vanden Berg. Tony Curtis, nato Bernard Schwartz a New York da Emanuel e Helen, ebrei ungheresi litigiosi e appassionati, il papà sarto che voleva in realtà essere un violinista e la mamma, secondo i suoi ricordi molto manesca e cattiva, con una piccola bottega. Erano gli anni prima della grande Depressione, la vita era difficile, e lo sarebbe stata ancora di più dopo. Sembra di entrare nel mondo di "Chiamalo sonno", quello degli immigrati ebrei poverissimi che si accalcano attorno ad Alphabet City. In realtà nel caso del giovane Curtis si trattava del Bronx, che avrebbe lasciato al nostro il pesante fardello di un riconoscibile accento e il ricordo di quando andava in giro per Manhattan, piccolo sciuscià, a cercare di guadagnare qualche soldo per la famiglia. Un fratellino muore travolto da un camion, un altro è schizofrenico e muore in un ospedale psichiatrico. Lui non può finire gli studi~ A tirarlo fuori dal Bronx fu la Marina, in cui Bernie (così si chiamava allora) si arruolò nel 1943, a diciassette anni. Seguì, dopo la pace, una serie di scuole di recitazione a cui lo candidavano il suo ciuffo nero e la sua intraprendenza. Qualcuno si accorse di lui, Robert Siodmak, che lo fece debuttare in "Doppio gioco". Poi arrivò la Universal, che lo mise sotto contratto tra i suoi giovani leoni, assieme a Rock Hudson, gli diede il nome di Anthony Curtis e gli fece fare un film dietro l’ altro. Film indifferenti. Per di più pare che il giovane Tony non riuscisse a comunicare con gli occhi. Fino al miracolo, nove anni dopo il debutto: "Piombo rovente" (bel titolo, ma l’ originale è meglio, " The Sweet Smell of Success", il dolce profumo del successo), un film sulla brutalità e la trucidezza del mondo della stampa girato dall’ inglese Mackendricks, in cui Tony Curtis, ormai ufficialmente tale, rivelò che era veramente un attore, che la sua bellezza un po’ volgare, il ciuffo nero, la sua aria perennemente rampante potevano dare un perfetto ritratto di americano senza scrupoli, senza vergogne, sempre all’ erta, teso solo al successo, costi quello che costi - preferibilmente agli altri. Sidney Falco (questo il suo nome nel film) è un prototipo umano, oltre che una grande, geniale interpretazione. Che restò insuperata, nella carriera di Curtis, nonostante la sua presenza in alcuni più o meno ambiziosi film storici (da "I Vichinghi" di Fleischer a "Spartacus" di Kubrick a "Taras Bulba" di Lee Thompson) fino al trionfo di "A qualcuno piace caldo", dove il donnaiolo, il seduttore, il marito a ripetizione sfidò con insospettabile finezza e ironia tutte le ambiguità del travestitismo - e visse il dolore, mai negato, di essersi visto sfuggire un Oscar, che andò al suo partner Jack Lemmon (mentre di Marilyn Monroe disse la celebre battuta: "Bacia come Hitler" e ammette ora, con qualche disinvoltura, di essere stato suo amante, e che lei "era giusto una delle tante". Be’ , direbbe Osgood Fielding III, "Nessuno è perfetto". E dà la vertigine del tempo che passa pensare che nel musical basato su "A qualcuno piace caldo" e messo in scena qualche anno fa era lui, il bel Tony di un tempo, a interpretare il ruolo del vecchio miliardario innamorato di Jack Lemmon. Il suo terzo trionfo come attore - e grande attore - , dopo una serie di film buoni e meno buoni (da "Operazione sottoveste" a dimenticabili imprese italiane) fu ancora una volta, nel 1969, con un film drammatico, "Lo strangolatore di Boston" di Richard Fleischer, dove Curtis, nel ruolo di un assassino amnesiaco e quindi incapace di confessare, trova una forza espressiva straordinaria. Mano a mano che il lavoro (o il lavoro interessante) andava diradandosi, fin dai primi anni ’60, Tony Curtis scopriva però il gusto per dipingere. Un gusto che ha ancora adesso (li vende anche, a quanto pare, i suoi quadri postimpressionisti e le sue "scatole", ad alberghi e ristoranti di Las Vegas e di L. A., uno perfino al sindaco di Budapest, città di cui dopo tutto è alla lontana un cittadino~). Dice che recitare "porta via così tanto tempo e finisce nell’ ennesimo film" e che preferisce godersi la vita accanto alla sua bella moglie in quella che è diventata la sua città, Las Vegas. Si dichiara felice. E’ abbastanza autocritico da dichiarare: "Sono così vanitoso da pensare che il mondo è stato fatto per me". Certamente abbastanza fiero di sé da farsi fotografare in occasione dei suoi ottant’ anni nudo, nel "central spread" di "Vanity Fair" America, con un’ unica protezione al suo pudore: i suoi due cagnolini Yorkshire che ha chiamato, estremo vezzo, Daphne e Josephine, come le due jazziste "en travesti" di "A qualcuno piace caldo". Irene Bignardi