note [1] Andrea Bonanni, ཿla Repubblica 17/6/2005; [2] Enrico Singer, ཿLa Stampa 17/6/2005; [3] Giorgio Ferrari, ཿAvvenire 17/6/2005; [4] Marco Niada, ཿIl Sole-24 Ore 16/6/2005; [5] ཿLa Stampa 17/6/2005; [6] Giuseppe Sarcina, ཿCorriere della Sera 17, 17 giugno 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 20 GIUGNO 2005
La crisi dell’Unione Europea si aggrava. Dopo i no di Olanda e Francia alla Costituzione è mancato l’accordo per il budget 2006/2013 (lo rivedono ogni sette anni). Riuniti a Bruxelles, i capi di governo dei 25 Paesi membri non sono riusciti a «trovare quei compromessi che erano la linfa vitale della politica comunitaria». Andrea Bonanni: «Apparentemente è una miserabile guerra tra ragionieri per pochi millesimi del Pil. In realtà, ancora una volta, è uno scontro per l’egemonia sul progetto europeo». [1] I britannici vogliono uno sconto al loro contributo; francesi e danesi l’intangibilità degli aiuti ai loro ricchi agricoltori; i tedeschi l’abbassamento del tetto al bilancio comune; spagnoli e italiani l’arrivo dei fondi strutturali a danno dei nuovi Paesi. [2]
«I want my money back». Voglio indietro i miei soldi, disse nel 1984 Margaret Thatcher ai leader europei che stavano discutendo il bilancio nel castello di Fontainebleau. Enrico Singer: «La Gran Bretagna, entrata nella comunità nel 1973, si era convinta di non avere fatto un buon affare. I suoi contributi alle casse comuni erano molto superiori ai fondi che tornavano sotto forma di aiuti allo sviluppo. E con quella frase, che consacrò la sua fama di ”lady di ferro”, la signora Thatcher pretese uno sconto. François Mitterrand e Helmut Kohl tentarono di resistere. Invano». [2] Gli inglesi non sono gli unici stufi di versare troppi soldi all’Ue: «l’Olanda è il più alto contributore netto per abitante del budget comunitario e questa situazione deve cambiare», ha detto appena arrivato a Bruxelles il premier Peter Balkenende. [3]
La Gran Bretagna recupera 66 centesimi per ogni euro di eccedenza versato alle casse dell’Unione. Singer: «Per ogni spesa addizionale - per esempio i fondi per l’allargamento - paga soltanto un terzo della sua quota teorica. Nel 2004 lo sconto ha fruttato a Londra un risparmio di 5,2 miliardi di euro che, quest’anno, diventeranno 5,8. Nella media degli anni 1999-2003, lo sconto britannico è stato di 4,6 miliardi di euro. Ma, nonostante questo, nello stesso periodo, la Gran Bretagna è stato il secondo contribuente netto alle casse comuni con un saldo negativo di 2,15 miliardi che, senza lo sconto, sarebbero stati 6,75. per questo che Blair non vuole cedere». [2]
Quel che risparmia la Gran Bretagna, lo versano gli altri Paesi. Nel 2003 i 4,8 miliardi di rebate sono stati così ripartiti: Francia 1,64 miliardi (31,7%), Italia 1,32 miliardi (25), Spagna 788 milioni (15,2), Germania 435 milioni (8,4) ecc. Singer: «La situazione della Germania è un’altra eccezione alla regola: poiché Berlino è il primo contribuente netto al bilancio della Ue (un saldo negativo medio di 7,2 miliardi negli anni 1999-2003), ha ottenuto la riduzione dei tre quarti del suo contributo allo sconto britannico. In pratica, paga soltanto il 25 per cento di quello che dovrebbe». [2] Lo sconto è anacronistico: la Gran Bretagna è il terzo Paese più ricco della Ue. Marco Niada: «Ma il problema è un altro. E va indietro nel tempo. Risale al 2002, quando venne votato il bilancio agricolo all’unanimità, con un sì di Blair a malincuore, condito da una battuta che Jacques Chirac si legò al dito. ”Con un bilancio del genere, che privilegia i tuoi contadini – disse Blair a Chirac – non puoi avere la faccia tosta di erigerti a paladino dei Paesi che muoiono di fame a causa di termini di scambio iniqui”». [4]
Blair è pronto a cedere sullo sconto a patto che venga cambiata la politica agricola. Oggi il 40% del bilancio Ue va a sostegno del 4% della popolazione (di cui un quarto contadini francesi) e del 2% del Pil. Niada: «I cittadini Ue, ha detto Blair alzando il tiro, hanno bocciato i referendum perché si sentono lontani dalla politica, vogliono azioni concrete come una riforma dell’economia che porti a più occupazione, la lotta alla criminalità, maggiore sicurezza e un modo diverso di spendere i soldi comunitari per fare fronte alla concorrenza di India e Cina. Più soldi alla ricerca e sviluppo, alla scienza e meno alle vacche Ue (francesi) che costano in sussidi 2 euro al giorno mentre nei Paesi più poveri la gente vive con un solo euro». [4]
Quest’anno il budget dell’Ue ammonta a 106 miliardi di euro, l’1% del Pil. Che non è una gran cifra, «due settimane di guerra» ha calcolato il lussemburghese Juncker, presidente di turno fino alla fine del mese. Il 42,6% va all’agricoltura, il 36,4 alle politiche regionali, il 7,8 in aiuti alla crescita, il 5,4 all’amministrazione, il 4,5 ad attività esterne, dopodiché resta un 3,3% per tutto il resto. Da qui al 2013 dovrebbe salire a 130 miliardi, l’1,06% del Pil: agricoltura 41,3, politiche regionali 35,2, aiuti alla crescita 9,7, attività esterne 6,2, amministrazione 6,0, giustizia (asilo, immigrazione) 1,1, cultura (giovani) 0,5. [5] Giuseppe Sarcina: «La ragione costitutiva dell’Europa, se si dà retta al bilancio, è ancora l’agricoltura. O meglio i cereali (ma non la frutta), la carne di manzo (ma non quella di maiale), il latte. La politica estera della Ue, per dire, vale circa 1 miliardo di euro all’anno, contro i 40/50 circa destinati a finanziare i lavoratori della terra». [6]
La ”Politica agricola comune” fu introdotta nel 1962. Come risultato del primo, fondamentale accordo tra francesi e tedeschi. Sarcina: «La Francia accettava di eliminare i diritti doganali nella Cee e dare libero corso ai prodotti industriali della Germania. La grande potenza economica si impegnava a finanziare la modernizzazione dell’agricoltura degli ex nemici. Per molti quell’intesa cristallizza un’epoca superata. Ma per altri la ”Pac” continua a rappresentare un modello di integrazione, poiché è l’unica azione di governo totalmente accentrata a Bruxelles». [6] Purtroppo, c’è gente che per prendere i contributi semina pensando che non raccoglierà. O non semina proprio. Renato Brunetta: «Perché uno yogurt deve costare meno in Italia che in Argentina? Quel 40% del bilancio europeo speso nella Pac è tutto tolto ai Paesi poveri. Accusiamo la Cina di dumping, poi i primi a farlo siamo noi europei con i nostri prodotti agricoli sussidiati». [7] Carlo Bastasin: «Il cittadino europeo dà a Bruxelles attraverso gli Stati nazionali l’1% del Pil: un quarantesimo della spesa pubblica media nazionale. Ma poiché a decidere non è lui, né Bruxelles, ma i governi nazionali, anche questa somma, relativamente piccola, non gli procura ciò che chiede all’Europa, ma tutt’altro». [8]
Blair approfitta del caos per muovere l’Ue in una «una nuova direzione». Patrick Wintour: «Crede che con la crisi creata dai ”no” in Olanda e Francia sia in gioco la leadership europea. Con Chirac considerato l’ammalato d’Europa e il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder sul punto di essere cacciato a settembre in favore della più Atlantica leader della Cdu Angela Merkel, ha visto un’opportunità senza precedenti di rimodellare l’Europa secondo gli interessi britannici». [9] Oltre alle differenze con Parigi su Costituzione e agricoltura, Londra spinge per una legislazione del lavoro più flessibile, sostiene un approccio Atlantico nelle relazioni internazionali, considera la Turchia un ponte tra Oriente e Occidente. [10]
Dal primo luglio Blair avrà la presidenza dell’ Ue. Potrà usarla come tribuna, ma dovrà stare attento a non farsi troppi nemici. [4] Errore commesso da Chirac, che infatti oggi è isolato. Giampiero Martinotti: «Guardandosi attorno, passando lo sguardo sui 24 partner che siedono al suo stesso tavolo, il presidente francese vede fisicamente il suo isolamento. Non può certo attendersi un aiuto da Berlusconi, con il quale i rapporti sono sempre stati freddi; non può riconquistare il cuore dei dieci leader dell’est, trattati con arroganza al momento della guerra in Iraq per il loro atteggiamento filo-americano; ha poco da sperare dallo spagnolo Zapatero, dal belga Verhofstadt, dal lussemburghese Juncker, che gli testimoniano simpatia, ma che non hanno motivo di svenarsi per aiutarlo». [11]
Chirac non è uomo da lasciarsi crocefiggere. Bonanni: «E di fronte all’offensiva di Blair, che lo inchioda al suo fallimento referendario e propugna un’Europa sul modello anglosassone, rilancia mettendo in discussione l’allargamento alla Turchia: passaggio cruciale per il progetto di Europa voluto dagli angloamericani. La Costituzione, dice, serviva per governare un’Europa allargata: come possiamo continuare ad estenderci senza avere le istituzioni adeguate? La proposta implicita di mettere la Turchia nel freezer delle buone intenzioni è, per il presidente francese, anche un ammiccamento ai democristiani tedeschi probabili vincitori delle prossime elezioni d’autunno e feroci oppositori dell’adesione turca». [1]
probabile che a settembre Angela Merkel prenda il posto di Schroeder. Franco Venturini: «La candidata cristiano democratica dice che è giusto chiedere a Blair un ridimensionamento del ”rimborso” finanziario strappato da Maggie Thatcher nell’84, ma aggiunge che per ottenere un compromesso anche Chirac dovrà fare concessioni [...] l’avvertimento lanciato dalla Merkel a Parigi non sembra fatto per incoraggiare gli inglesi ad accettare oggi quel che potrebbe essere migliore domani. L’attesa della nuova Germania, peraltro, non finisce qui. In armonia con gli umori che prevalgono al vertice ma questa volta in frontale contrasto con Blair e con Berlusconi oltre che con Schroeder, la signora Merkel vede con sospetto ulteriori allargamenti dell’Unione. Passi, forse con un po’ di ritardo, per la Romania e la Bulgaria che sono già sull’uscio europeo. Passi per la Croazia, quando esisteranno le giuste condizioni. Ma la Turchia no». [11]
Prima o poi troveranno un accordo. Bastasin: «Ognuno strapperà un lembo di ciò che chiede in una trattativa che sembra confondere grezzamente i benefici contabili con i benefici politici. L’interesse contabile, per esempio, è forse di ridurre gli aiuti ai nuovi Paesi membri più poveri, ma l’interesse politico è tutt’altro: negare gli aiuti frena la crescita dei nuovi Paesi e quindi aumenta sia la concorrenza salariale, sia la voglia di emigrare, con le conseguenze presso l’opinione pubblica che sappiamo. Se i fondi europei versati all’Irlanda hanno portato una crescita dell’8%, quelli alla Spagna del 6% e quelli all’Italia solo dell’1% le spiegazioni si ingarbugliano: la convenienza è solo politica e il populismo è economico. Negare poi i soldi alla ricerca o alla difesa comune, per mantenerli nei confini nazionali, dà un po’ di provvisorio potere ai governi, ai generali o ai rettori, ma ai cittadini non dà né difesa, né ricerca, né crescita, né futuro. Alla fine i cittadini sentono che la politica non dà ciò che promette, né a livello nazionale né a quello europeo. E, come vediamo, reagiscono sanzionando elettoralmente chiunque, sia a livello nazionale sia a livello europeo». [8]
La ratifica della Costituzione non è saltata per i suoi difetti, ma a causa del malcontento innescato dalla prolungata stagnazione dell’economia e dal fatto che l’Europa non sembra in grado di invertire la tendenza. Bonanni: «Non ha torto dunque Tony Blair quando rivendica il primato della politica sull’ingegneria istituzionale. Senza una guida politica che sappia riformare e rilanciare l’economia restituendo fiducia agli europei, qualsiasi progetto costituzionale è destinato al fallimento, come fallimentari sono i bilanci dei governi nei paesi in stagnazione, dalla Francia all’Olanda, dalla Germania all’Italia. Ma se è vero che i cittadini europei chiedono, giustamente, all’Unione di garantire il loro futuro e quello dei loro figli e la puniscono per non aver fornito le risposte adeguate, è anche vero che l’Europa, oggi, non ha gli strumenti per imporre ai governi nazionali una direzione politica in grado di riformare e rilanciare l’economia». [1]
L’Ue è intrappolata in un paradosso. Bonanni: «Senza un ripensamento delle istituzioni e un’ulteriore delega di sovranità in materia di politica economica, difficilmente potrà invertire la tendenza e darsi una guida in grado di rilanciarla recuperando consensi al progetto europeo. Ma senza un rilancio dell’economia e una rinnovata leadership comunitaria, è difficile, se non impossibile, che l’Unione trovi il consenso necessario a ripensare se stessa e le proprie istituzioni. Sono i due estremi di quello che appare oggi il come il paradosso europeo. Sino a che non sarà in grado di risolverlo, difficilmente l’Unione uscirà dal coma in cui è entrata con la bocciatura della Costituzione». [1]
in auge una versione inedita degli opposti estremismi. Da una parte quelli che vorrebbero far finta di niente, dall’altra quelli che proclamano la morte dell’Europa. Venturini: «Servirà un po’ di tempo per rendere evidente quanto si sbaglino gli uni e gli altri, bisognerà aspettare, oltre al ricambio a Berlino, anche quello a Parigi in calendario per il 2007. Ma sin d’ora risulta chiara l’importanza per tutti delle riforme economiche tedesche (la Merkel, con le opportune rettifiche, di certo le continuerà), e sin d’ora è aperto il dibattito sulle diverse velocità che devono consentire all’Europa di sopravvivere e forse anche di diventare più efficace. Con quale gruppo d’avanguardia? Non quello dei Paesi fondatori, che Francia e Olanda hanno silurato. Non quello dell’Eurogruppo, perché rimarrebbe esclusa la Gran Bretagna. Forse quello dei ”grandi Paesi”, con accordi e incontri informali, cooperazioni rafforzate in questo o quel settore, volontà politiche comuni ove possibile». [12]
L’Europa ha tutti i sintomi di una civiltà in declino. Se non in decadenza. Timothy Garton Ash: « risibile che il primo ministro lussemburghese insista a sostenere, come in passato alcuni leader comunisti dell’Europa dell’est, che il nero è bianco e che tutto può restare esattamente come prima. Il governo scioglierà il popolo e ne eleggerà uno nuovo». [13] Bastasin: «La visione politica dei leader nazionali è in ritardo sulla realtà, ma nelle ostiche pieghe del bilancio europeo qualche segnale di distinzione tra egoismi contabili e interessi politici si può timidamente vedere. Non è solo un nuovo capitolo di una vecchia ipocrisia. In fondo proprio Blair, a parole il meno europeista, ha offerto una parziale rinuncia agli interessi nazionali in cambio di un bilancio migliore per tutti. Juncker ha modificato l’algebra dello status quo. Schroeder ha attenuato i toni. Sono primi segnali dopo lo choc. La realtà è più avanti, ma questo forse significa soltanto che l’Europa non può fermarsi e che i leader migliori cominciano a capirlo». [8]