La Stampa 15/06/2005, pag.27 Maurizio Cucchi, 15 giugno 2005
Milano calibro zero. La Stampa 15/06/2005. Milano.«Faceva il palo nella banda dell’Ortica, faceva il palo perché l’era el sò mestée»
Milano calibro zero. La Stampa 15/06/2005. Milano.«Faceva il palo nella banda dell’Ortica, faceva il palo perché l’era el sò mestée». Indimenticabile Enzo Jannacci quando, rigido come un baccalà surreale, cantava queste parole di Walter Valdi. Il palo non vedente, che «era lì fisso che scrutava nella notte», un personaggio esilarante e assurdo, ma in fondo non così lontano da una realtà reale, dai caratteri di una mala che ormai sembra lontana secoli e secoli. La cantavano anche la giovane e aristocratica Ornella Vanoni, e poi Dario Fo, e Nanni Svampa nella sua splendida Antologia della canzone lombarda. Una malavita, in fondo, quasi simpatica, capace di imprese senza spargimento di sangue, imprese che mettevano in moto la fantasia creando personaggi popolarmente eroici. Olga Piscitelli parla dei banditi milanesi in Colpo grosso (Zona, pp. 150, ? 16) e nelle prime pagine ci ripresenta il celebre colpo delle Tute Blu, quello della banda di via Osoppo, dove c’era il mitico Ugo Ciappina, che oggi non vuol vedere né sentire i giornalisti, che continuano a parlargli di quel giorno di quasi cinquant’anni fa. Era il 27 febbraio del 1958. Alle nove e mezzo di mattina, i rapinatori in tuta fermano il furgone blindato di una banca. Con una martellata in testa bloccano l’autista. Fingono di sparare facendo «ta-ta-ta» con le bocche, ripuliscono il blindato e scappano. Cinquecentonovanta milioni di allora, una cifra enorme. Verranno presi, ma l’organizzazione e l’esecuzione erano stati esemplari: un colpo che aveva fatto... colpo. Indro Montanelli, ci ricorda l’autrice del libro, scrisse che «molti italiani erano segretamente orgogliosi che dei compatrioti avessero realizzato una cosa ”seria”, anche se criminale, come la rapina di via Osoppo». Qualche bandito commette l’errore di darsi troppo alla bella vita, lusso, gioco, belle donne, facilitando le indagini. Luciano De Maria, uno di loro, scriverà poi un’autobiografia spiegando l’etica di quei rapinatori: «Un conto è rapinare le banche, che a loro volta rapinano i risparmiatori, un altro è togliere la vita che è la cosa più sacra che ci sia». Insomma, quei ladri avevano una loro etica e un codice d’onore, nel quale era assolutamente condannato l’omicidio. Ciappina e De Maria lo sapevano benissimo. Ricordo che nel ’67, quando si diffusero le notizie dei delitti compiuti dalla banda Cavallero, di cui pure racconta Olga Piscitelli, provai, oltre all’orrore per il sangue sparso per denaro, anche un certo stupore. La ragione era semplice, in fondo: capivo che Cavallero aveva superato una soglia che la legge della vecchia mala aveva sempre cercato di non oltrepassare. Con la sua banda, cioè, aveva accettato di sparare e uccidere, aprendo una nuova epoca in cui il ladro diventava anche assassino. Passata quella soglia, si capiva subito che non era più possibile tornare indietro, e dunque il tempo dei vecchi banditi, magari anche pittoreschi, avventurieri senza tanti scrupoli, ma rispettosi della vita umana, era finito per sempre. Ricordo che mia nonna mi parlava dei vecchi cortili delle case milanesi di Porta Ticinese. Case di ringhiera con vari cortili infilati uno dietro l’altro che rendevano facile al ladro darsela a gambe. Una volta entrato in uno di quei portoni, beccarlo era quasi impossibile: era come immettersi in un labirinto di cui il fuggitivo conosceva tutti i segreti. Un’altra zona della mala milanese era quella di Porta Venezia, dov’era una volta il quadrilatero del vecchio Lazzaretto, demolito alla fine dell’Ottocento. Lì i borseggiatori erano di casa. Da ragazzino ricordo di averne conosciuto uno, il Gigi, distintissimo, coi capelli neri incollati sul cranio con la brillantina e la riga in mezzo. Lavorava di abilità sui mezzi pubblici, e inventava a tratti qualche verso in dialetto che recitava al ristorante. Voleva metterli insieme col titolo: Versi d’amore e di malavita. Per esempio, memore di un arresto subito per furto di un portafogli, descriveva la scena con l’efficace sintesi di questo endecasillabo autoironico: «Son vegnù giò del tram e m’han ciapà». Ozioso viveur e flâneur, il Gigi era un narratore di barzellette. D’estate, «lavorava» in Riviera, una delle sue storielle era questa: «Siamo entrati insieme nella sua cabina per metterci il costume da bagno. Lei era nuda, mi ha guardato e mi ha detto: ”Prendi di me quello che vuoi”. E mi g’ho dì: ”Ciapi la biciclèta”» (e le ho detto: prendo la bicicletta). Poesie e storielle a parte, c’è da dire che i banditi andavano al cinema e magari si ispiravano anche. Tanto che Franco Di Bella - ricostruisce sempre la Piscitelli - sosteneva che la Banda di via Osoppo si era ispirata a un film americano del ’55, ambientato a Boston nel ’30: La rapina del secolo. Tra i rapinatori «romantici» e artistici, una delle figure di spicco è Luciano Lutring, milanese figlio di un ungherese e di una lattaia milanese, che da ragazzo aveva studiato al Conservatorio e che è poi diventato pittore. Il cosiddetto «solista del mitra», dice la Piscitelli «nel suo personale cantiere vanta oltre duecento rapine, ma non ha mai sparato un colpo». Si dava da fare a Parigi e Milano, a seconda delle donne di cui si innamorava. Il primo ad arrestarlo fu nientemeno che Carlo Alberto Dalla Chiesa. Comunque, dice Lutring: «Noi della mala avevamo un codice, usavamo la testa. Stavamo in riga, ben attenti a non farci scappare il ferito, figuriamoci il morto. I delinquenti di oggi invece sono fuori di melone. Arrivano infarciti di coca, prima stecchiscono il cassiere e poi gli chiedono i soldi». Su Cavallero e su Lutring girati film: Banditi a Milano e Svegliati e uccidi, regista sempre Carlo Lizzani, attore d’eccezione Gian Maria Volonté. Con Renato Vallanzasca, la mala è già decisamente dentro un’altra epoca (vedi anche Milano calibro velluto di Francesca Arceri nelle edizioni Bevivino, con prefazione di Andrea Pinketts e appendice con glossario e fumetti). «Ragioniere mancato. Intelligente, coraggioso, gradasso», il cosiddetto «Bel René», è precocissimo. Gran ganassa che piace alle donne, a ventidue anni è già famigerato. Poi, fra il ’76 e il ’77, colleziona una settantina di rapine e quattro sequestri di persona. «La scia di sangue - dice l’autrice di Colpo grosso - è impressionante». Appunto, i tempi sono cambiati, il passo tremendo compiuto dalla banda Cavallero è irreversibile, e da allora la mala, romantica e disarmata o quasi, è qualcosa di antico, che appartiene a un’epoca di colpo divenuta preistorica. Maurizio Cucchi