La Repubblica 08/06/2005, pag.45 Antonio Monda, 8 giugno 2005
Quando l´America perse la bussola. La Repubblica 08/06/2005. New York. Quando Nashville venne distribuito in America dalla Paramount dopo che la United Artists aveva ritirato il proprio finanziamento, la critica statunitense ne lodò immediatamente l´originalità dello stile e la folgorante maestria della regia, e Pauline Kael definì il film la «più divertente visione epica dell´America che sia mai apparsa sullo schermo»
Quando l´America perse la bussola. La Repubblica 08/06/2005. New York. Quando Nashville venne distribuito in America dalla Paramount dopo che la United Artists aveva ritirato il proprio finanziamento, la critica statunitense ne lodò immediatamente l´originalità dello stile e la folgorante maestria della regia, e Pauline Kael definì il film la «più divertente visione epica dell´America che sia mai apparsa sullo schermo». Era il 1975, e il grande paese era appena uscito dal trauma del Watergate e la tragedia del Vietnam: Hollywood era nel pieno di una rivoluzione generazionale, ma fino a quel momento le majors avevano affrontato solo indirettamente, e in una chiave ribelle e individualista, i temi politici del momento. Rispetto ai «giovani turchi» emersi sulle ceneri dello studio system, che avevano sbalordito la vecchia guardia per il talento e il successo al box office con film quali "Il Padrino" e "Lo squalo", Altman rappresentava un cineasta assolutamente differente: proveniva dal cuore del paese, non apparteneva né al clan newyorkese né a quello hollywoodiano, era decisamente più anziano dei registi emergenti (all´epoca era già cinquantenne) e aveva una carriera decisamente anomala. Aveva debuttato in televisione e quindi diretto dodici film, riscontrando un crescente apprezzamento critico per "I compari", "Il lungo addio" e "California Poker", ma un unico successo commerciale: "Mash". Agli occhi dei dirigenti hollywoodiani si era cimentato in troppi generi diversi senza riempire le sale, e la decisione di realizzare una metafora dell´America dell´epoca ambientata nella capitale della musica country creava a dir poco sconcerto. C´era di peggio: per quello che definiva «un affresco politico del paese nel suo massimo momento di disorientamento», Altman aveva in mente uno stile corale ed ellittico nel quale non solo non erano previste star, ma neanche un vero protagonista. Il regista fu costretto a investire in prima persona l´intero budget di due milioni e duecentomila dollari, e solo dopo le prime proiezioni d´assaggio ebbe la certezza di aver trovato una distribuzione. Quello che all´epoca venne vissuto da Altman come un incubo produttivo appare oggi la garanzia ed il segreto dell´assoluta libertà creativa di cui poté godere. La Kael, che scrisse all´uscita del film che «l´arte di Altman, come quella di Fred Astaire, è la grande arte americana di far apparire semplice l´impossibile» profetizzò anche un successo commerciale «stratosferico» che non avvenne, ma Nashville divenne immediatamente un film di culto che immortalò come nessun altro il clima di tensione e spaesamento di quel periodo. L´approccio corale che terrorizzava i produttori fu riconosciuto sin da quel film come «lo stile Altman», il quale riconobbe l´influenza di un classico quale "Grand Hotel" e lo ripropose quindi con analoga maestria in "Un matrimonio", "Short Cuts", "I protagonisti", "America oggi" e "Gosford Park", influenzando a sua volta una nuova generazione di giovani autori, primo tra tutti Paul Thomas Anderson. Arrivarono anche cinque candidature agli Oscar (tra cui miglior film e regia), e se finì per vincere soltanto la canzone «I´m easy» eseguita da Keith Carradine, è solo perché si trattava di uno dei rari casi in cui nelle categorie maggiori c´erano realmente concorrenti di altissimo livello: Milos Forman (che vinse con "Qualcuno volò sul nido del cuculo"), Federico Fellini, Stanley Kubrick e Sidney Lumet. Ma quello che rimane a trent´anni di distanza è la straordinaria compiutezza poetica con cui Altman è riuscito a realizzare una metafora dell´America trattando temi differenti quali la politica, il successo e il ruolo sociale delle donne. Non esiste personaggio del film che non sia ritratto a tutto tondo attraverso pochissime pennellate, e ognuno di essi è caratterizzato da una sincera motivazione interna. Guardando Nashville si ha l´impressione che Altman non nasconda nulla dei propri personaggi, ed è mirabile come riesca a preferire il disincanto al moralismo o al facile sarcasmo. I personaggi vivono nel cuore del «Bible Belt», ma si comportano in maniera ben poco religiosa, e Altman sottolinea come ognuno, anche all´interno della stessa famiglia, frequenti templi e chiese diverse. Il disordine morale lascia terreno fertile per una politica volgare e demagogica e i personaggi sembrano seguire solo i propri istinti: c´è chi soffre, chi uccide, chi insegue il successo, chi fa patriottismo a buon mercato, chi tradisce il coniuge e chi seduce quattro donne contemporaneamente facendo credere a ognuna di averle dedicato la canzone che esegue in pubblico. Un affresco del genere non poteva preludere che a un finale tragico, ma Altman conclude la sua storia con un coro collettivo di persone che cantano "I´m easy": «Non me ne importa niente». Antonio Monda