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 2005  maggio 31 Martedì calendario

Malerba: Sciascia fece della mafia un mito. Corriere della Sera 31/05/2005. «Descrivere il mondo, ammesso che il mondo esista»

Malerba: Sciascia fece della mafia un mito. Corriere della Sera 31/05/2005. «Descrivere il mondo, ammesso che il mondo esista». Ecco una buona ragione che fa di Luigi Malerba uno degli scrittori di più lungo corso della letteratura italiana d’oggi. Qui in casa Malerba il mondo visibile è ritagliato in una grande vetrata che guarda, dall’alto del Colle Oppio, la Domus aurea e, più sotto, il Colosseo. Malerba arrivò ventitreenne a Roma nel ’ 50 dalla sua Berceto, in provincia di Parma, dove il papà si occupava della campagna e la mamma, oltre a badare alla famiglia, faceva lavorare la fantasia raccontando storie. Nella casa cinquecentesca di Orvieto, comperata da Luigi nel ’ 68 con i suoi otto ettari di terreno, c’è l’anima del padre. Nei romanzi e nei racconti c’è la felicità di sua madre. «Emigr ai a Roma come le rondini, per cercare un clima più civile» ricorda Malerba. Quando arriva a Roma, Luigi Bonardi ( questo il suo vero cognome) ha alle spalle un liceo classico e una laurea in legge. Si stufa della giurisprudenza perché non sopporta i manuali giuridici: «Sono un inferno, impiegano venti righe per dire concetti che si posso esprimere in poche parole». Si lancia nel cinema come sceneggiatore. Tredici anni vissuti pericolosamente, con gente come Festa Campanile, Zavattini, Lattuada, Monicelli, Tognazzi, finché rifiuta di diventare uno stipendiato di De Laurentiis, rifiuta di seguire per qualche mese Antonioni in Sardegna per pensare con calma a un’idea di film ( «Guerra lavorava con lui anche un anno e poi non compariva neanche nei titoli di coda...» ). Insomma, si stufa pure del cinema. O meglio, lo fanno stufare: «Per una spiata, il sottosegretario Andreotti venne a sapere che ero amico del " comunista" Zavattini e così un giorno, mentre per la Titanus lavoravo al trattamento della Colonna infame , il produttore Goffredo Lombardo mi chiamò e mi disse che era meglio interrompere. Gli spioni erano due: uno è ancora vivo. In Italia c’era una vera e propria caccia alle streghe, come quella americana. Io ero nel libro nero di Andreotti e rimasi tagliato fuori». Il «comunista» Malerba in realtà allora votava per Nenni, solo dopo avrebbe guardato al Pci: «Ma non sono mai stato iscritto a nessun partito, mai mai mai, assolutamente». Così Malerba si inventa pubblicitario. Le caramelle Dufour, il cognac Polignac, la birra Becks e la Supercortemaggiore sono roba sua. Anche lo short della pasticca del Re Sole con Buscaglione. Poi si stufa anche della pubblicità e «si ricicla» come scrittore. Con il Gruppo 63, alla prima riunione di Palermo, c’è anche lui. Intanto pubblica il suo primo libro, La scoperta dell’alfabeto , grazie a Flaiano, che lo raccomanda a Bompiani. Presso la Bompiani c’erano già due futuri neoavanguardisti di punta: «Filippini era molto brillante e creativo. Porta sembrava un po’ sonnolento ma il lettore più sensibile era proprio lui, mentre Filippini alla fine era un po’ deludente e grossolano». Un bilancio degli editori? Non sempre rapporti idilliaci: nel ’ 76 una «garbata» contestazione contro la Bompiani porta Malerba, con Zavattini, Moravia, La Capria, Guerra, D’Agata, Guglielmi, Barilli, a firmare la ri chiesta di «partecipare in modo diretto e attivo» alle iniziative editoriali. La proposta si dovrebbe tradurre in una collana, Il cavallo di Troia , che si opponga alla politica del «profitto immediato» voluta dai dirigenti, tra i quali ci sono anche gli «amici» Porta e Eco. Non se ne farà nulla e Il cavallo di Troia sarà una rivista. Quando Malerba propone alla Einaudi i racconti delle Galline pensierose , Calvino li accoglie con entusiasmo e scrive subito la quarta di copertina. «Ma Natalia Ginzburg, non so perché, mi odiava, per lei il libro era troppo piccolo. Il libro uscì nell’ 80, ma mi vendicai aggiungendo una gallina di nome Natalia» che «aveva deciso di scrivere un romanzo, ma non le vennero in mente né la trama né i personaggi né il titolo né lo stile della scrittura». E che con i suoi romanzi autobiografici «ebbe molto successo fra le oche». La controvendetta di Natalia non si fece attendere e Il serpente scomparve dalla lista della Biblioteca ideale Einaudi. Giulio Einaudi nell’ 86 gli dice che ha letto con piacere il dattiloscritto de Il pianeta azzurro. Ma il romanzo sarebbe poi uscito da Garzanti: «All’Einaudi c’erano Ferrero e Bollati...». Malerba era già uno scrittore da antologia. Ne aveva fatta di strada dagli esordi degli anni Sessanta, quando Angelo Guglielmi decise di proporre un suo racconto per Il Verri. Fu allora che aderì al Gruppo 63. «Le riunioni non avevano un’aria così polemica o truce come si pensa. C’erano i grandi parlatori, Sanguineti era il più loico , l’unico davvero di estrema sinistra, marxismo leninismo duro e puro. Poi, Filippini, Eco, Giuliani, Leonetti, Arbasino, Barilli, eccetera. Io appartenevo alla sinistra moderata, rosso pallido o rosa antico. Poi diventai amico di Arbasino, una persona onesta, corretta, perbene. Una delle poche amicizie che durano ancora oggi». Che cosa è rimasto di quella esperienza letteraria? «Ne Il fascino discreto della borghesia , a un certo punto entrano in scena quattro personaggi di spalle, con impermeabili svolazzanti, che camminano su un prato. Quella sequenza non c’entra niente ma ci sta bene. Ecco, ci è rimasta questa stessa libertà...» La libertà che c’è nel Serpente e poi via via nel Diario di un sognatore , fino al Fuoco greco , forse il capolavoro di Malerba. «Per me la necessità nella scrittura è il mio stesso rinnovamento» dice. Sperimentare sempre. «Non più per storpiare il lessico o per stravolgere la sintassi: quel che mi interessa oggi è lavorare sull’architettura e sui soggetti. Se avessi continuato a scrivere come ne Il serpente o nel Pataffio o in Salto mortale , sarei caduto nella maniera, come è capitato ad altri». Altri chi? «Manganelli ha scritto libri molto belli come Centuria , ma a volte andava a ruota libera e adottava una specie di stampo. Spesso è caduto nella ripetizione e nella maniera». Sperimentare sempre. Anche con il nuovo romanzo, i cui fogli sono già ben sistemati davanti a un computer eternamente acceso sulla piccola scrivania della sala. Ma torniamo al ’ 66. La Spezia. Quarta riunione della neoavanguardia. L’incontro con Calvino. «Stava lì in fondo alla sala senza dire una parola, da osservatore. Diventammo amici, d’estate lui veniva a trovarci a Orvieto e noi andavamo da loro a Roccamare. Parlava poco, con qualche eccezione. Nel periodo in cui doveva pagare le tasse, era ossessionato, stava male e non parlava d’altro». Un dispiacere, anzi un rimpianto, anzi un dolore: «Mi ricordo che lo incontravo qualche volta al Pantheon: una mattina mi disse che aveva un terribile mal di testa, dietro l’orecchio, una pugnalata, era spaventatissimo perché suo padre era morto per un aneurisma. Gli dissi: vai da mio fratello, che è medico... Aveva una tale paura che non osava neanche farsi vedere. Dopo qualche mese... Se si fosse curato, probabilmente sarebbe ancora vivo. Forse non ho insistito abbastanza». Un altro ricordo, questa volta piacevole: i pranzi con Italo e Manganelli. «Una volta eravamo a tavola in casa Calvino, non c’era il peperoncino e Manganelli disse che senza peperoncino non poteva mangiare. Giorgio era speciale per mettere in difficoltà i suoi ospiti. Recitava molto e a furia di ripetere certe scene diventò maniaco davvero: la finzione, del resto, fa parte della malattia». 1986. Pianeta azzurro è il romanzo più «politico» di Malerba. La politica come gigantesca allegoria? «La politica affrontata direttamente nei romanzi non mi è mai interessata. Penso a Sciascia, le cui posizioni alla fine risultano vagamente ambigue. Io vorrei sapere che cosa pensano i mafiosi dei suoi libri. E’ probabile che li leggano, ma ho sempre il dubbio che possano piacere alla mafia, perché i libri di Sciascia hanno finito per mitizzarla come un’entità misteriosa e romanzesca». Anche nel Pianeta azzurro ci sono oscure trame e un professore che assomiglia ad Andreotti. Ma siamo pur sempre nell’allegoria. Dieci anni dopo, Malerba scriverà a Belzebù dalle colonne de «la Repubblica» per invitarlo a scrivere un romanzo in cui raccontare le verità della Prima Repubblica. Era il messaggio di uno scrittore convinto da sempre che la finzione è realtà e viceversa. Una confusione che aveva scombinato le carte della tradizione. Rompeva con il realismo italiano di Moravia, Bassani, Cassola e persino Pasolini. La storia di Bassani «fatto fuori» da Balestrini e dagli altri «ragazzi» della neoavanguardia come direttore della Feltrinelli è nota. Il rifiuto di Fratelli d’Italia pure. «Bassani – dice ora Malerba – fu giustamente messo da parte: aveva pubblicato un romanzo molto modesto di Rodolfo Celletti, presentandolo come un nuovo Gattopardo. Una gaffe pesante. Senza dire che si prese il merito di aver scoperto Il Gattopardo , ma in realtà era stata Elena Croce a segnalarglielo». Ma l’allontanamento di Bassani da parte di Feltrinelli non fu un colpo di mano della cultura di sinistra? «Io dico sempre: come mai in tanti anni di potere politico e finanziario la Dc non fu capace di metter su neanche una casa editrice, una rivista, un giornale? La risposta è: perché non avevano nessun grande intellettuale. In realtà non è colpa di nessuno se gli scrittori tendevano tutti al rosa o al rosso; gli intellettuali di destra chi sono: l’apocalittico e pazzo Ceronetti mi diverte; il cattolicissimo Parazzoli lo stimo. C’è stata l’Adelphi, d’accordo. Ma gli altri? Non sono stati capaci di niente». Paolo Di Stefano