Corriere della Sera 07/06/2005, pag.15 Sergio Romano, 7 giugno 2005
Crudele e cinico, ma restituì la dignità alla Cina. Corriere della Sera 07/06/2005. Mi chiedo se Mao Zedong, il Grande Timoniere, fosse davvero comunista
Crudele e cinico, ma restituì la dignità alla Cina. Corriere della Sera 07/06/2005. Mi chiedo se Mao Zedong, il Grande Timoniere, fosse davvero comunista. Non sembra che in gioventù avesse avuto una particolare familiarità con i testi del marxismo e con la letteratura rivoluzionaria di cui si nutrirono i grandi agitatori e militanti dopo la Grande guerra. Le sue letture preferite erano i romanzi di avventure della tradizione cinese e le biografie dei grandi personaggi del passato. Forse scelse la politica perché era naturalmente ribelle e deciso a uscire dalla modesta condizione sociale in cui era cresciuto. Ma esitò agli inizi fra il partito comunista, di cui divenne membro sin dal 1921, e i nazionalisti del Kuomintang, di cui fu dirigente negli anni in cui i due movimenti avevano stretto un patto di collaborazione. Quando scelse il comunismo s’impose come leader, ma la sua maggiore intuizione, da un punto di vista strettamente marxista, fu una eresia e creò le condizioni del grande scisma che sarebbe scoppiato fra Mosca e Pechino alla fine degli Anni Cinquanta. Capì che la rivoluzione cinese sarebbe stata possibile soltanto se il partito fosse riuscito a mobilitare le masse contadine. La Lunga marcia ( 12.000 km, 200 scontri, 80.000 caduti) durò un anno, dall’ottobre 1934 all’ottobre 1935, e fu una grande campagna di reclutamento attraverso le campagne e i monti dello Yunnan, del Sikiang e del Si chuan. Mao perdette la grande maggioranza degli uomini con cui era partito, ma reclutò lungo la strada un nuovo esercito e creò nella provincia Nord occidentale dello Shensi la " Repubblica sovietica del Popolo cinese " . A Mosca, dove la parola " sovietica " dovette sembrare una usurpazione, qualcuno si chiese quanta fiducia fosse lecito riporre in quell’esperimento. Ma un giornalista americano, Edgar Snow, ne fu affascinato. Quando fece visita a Mao nel 1937 ed ebbe con lui interminabili colloqui notturni, scoprì un uomo più alto della media cinese, leggermente curvo, la testa coperta da una massa di capelli neri e ispidi, gli occhi grandi e penetranti, il naso arcuato, gli zigomi sporgenti. Non era soltanto un leader rivoluzionario. Era anche poeta e aveva un grano di follia romantica che sedusse il giornalista americano e fece di lui il Giovanni Battista del maoismo in partibus infidelium. Il grano di follia esplose dopo la conquista del potere. Insediato a Pechino, Mao ignorò l’ortodossia di Marx e di Lenin per affidarsi al suo volontarismo romantico. Lanciò una serie di rivoluzioni, tutte fallimentari e sanguinose: la collettivizzazione della terra, i " cento fiori " , il Grande balzo in avanti, le comuni rivoluzionarie e infine, quando il potere stava per sfuggirgli di mano, la Rivoluzione culturale, atto supremo di cinismo politico e fantasia romantica. Il fatto che ciascuno di questi conati rivoluzionari si lasciasse alle spalle qualche milione di morti lo lasciava indifferente. Aveva un concetto titanico della storia ed era convinto che gli uomini fossero semplicemente i mattoni con cui egli avrebbe costruito il suo capolavoro. Quando accettava senza battere ciglio il ri schio di una guerra atomica e sosteneva che la Cina, grazie alla sua sterminata popolazione, avrebbe potuto permettersi parecchie decine di milioni di vittime, era perfettamente sincero. Fu peggio di Stalin? Senza dubbio. Il " meraviglioso georgiano " era afflitto dalla patologia del sospetto e uccise più comunisti di quanti non ne abbia ammazzati il capitalismo. Ma ebbe due grandi meriti: il primo Piano quinquennale, che fece dell’Unione Sovietica una moderna potenza industriale, e la " grande guerra patriottica " contro l’invasore tedesco. Mao non fu meno crudele, ma lasciò ai suoi successori, dopo la morte, un Paese in ginocchio. Tutto ciò che Deng Xiaoping realizzò negli anni seguenti fu una implicita sconfessione dei romanticismo rivoluzionario di Mao. Ma la sua mummia è custodita in un mausoleo nel centro di Pechino e nessun revisionismo, sinora, ha intaccato ufficialmente la sua immagine. Ipocrisia? Opportunismo di partito? Soltanto in parte. A dispetto del suo velleitarismo e della sua crudeltà Mao rimane l’uomo che ha rotto le catene del colonialismo e ha restituito al Paese la dignità perduta quando gli europei approfittarono del suo declino e ne fecero un protettorato. Per i comunisti cinesi fu il becchino delle loro speranze, per i borghesi un tiranno, per i contadini un flagello di Dio, per tutti un liberatore. Sergio Romano