?, 12 giugno 2005
Tags : Djamir Pinatti
PINATTI Djamir. Nato a Orlândia (Brasile) il 13 aprile 1930. Capoeira. «[...] Rappresenta un pezzo importante del movimento dell’arte marziale della capoeira nel mondo
PINATTI Djamir. Nato a Orlândia (Brasile) il 13 aprile 1930. Capoeira. «[...] Rappresenta un pezzo importante del movimento dell’arte marziale della capoeira nel mondo. un grande maestro, uno studioso e un appassionato. Ha iniziato la sua traiettoria con il karate di Mitsusuke Harada, sbarcato in Brasile nel ’55 col quinto dan ricevuto direttamente dal fondatore dello Shotokan, Gichin Funakoshi. Con Harada, Pinatti diventa la prima cintura nera dell’America Latina. Successivamente scopre l’arte marziale di casa e viene insignito alla scuola del leggendario Bimba, che negli anni precedenti aveva codificato la capoeira moderna distinguendone la forma tradizionale da quella che chiamò Regional, più acrobatica e veloce. Nel ’69, Pinatti vara la sua scuola: la Familia Internacional Pinatti ha oggi ramificazioni in Italia, Germania, Olanda, Belgio, Irlanda, a New York e Singapore. [...] i nonni, Fosca Reschiglia, padovana, e Giuseppe Pinati da Fiumicello in provincia di Udine [...] ”La capoeira è un grande tesoro nelle mani del popolo brasiliano. anzi la massima espressione culturale autoctona del Brasile, più del calcio, che vi è arrivato tramite gli inglesi. Più del samba. La capoeira immedesima l’essenza culturale sincretica del Brasile, la fusione degli elementi etnici: indio, bianco e nero. Non c’è pregiudizio razziale nella capoeira. I lottatori bianchi hanno imparato dai neri, i neri dai bianchi: si sono meticciati nelle movenze, nelle finte, e a livello emozionale. Il capoeira, il praticante, è capoeira e basta. Io stesso prima di essere brasiliano, mi sento capoeira. Questo è l’orgoglio di un’arte che è sopravvissuta nel tempo malgrado le proibizioni e le persecuzioni. Quando era vietata, come al tempo dei Dom Pedro e del primo presidente della Repubblica, il maresciallo Deodoro da Fonseca, chi la praticava rischiava la galera. Anche in questo sta la sua magia: che mai ha ricevuto aiuti da parte di nessun governo brasiliano. Si è fatta spazio da sola, conquistando il mondo. E se il Brasile è, sotto molti aspetti, Terzo mondo, con la capoeira è Primo mondo: esporta la sua cultura; la sua musica, che la accompagna durante la roda; la sua lingua, attraverso i testi cantati e la nomenclatura delle tecniche. Questo compendio di arte marziale, musica, testo, tutto assieme, ha dato alla capoeira glamour, mistero, un carisma: l’ha resa un fattore di acculturazione. Quello che molti ignorano è che la capoeira ha influenzato grandemente il calcio brasiliano. I primi calciatori erano perlopiù capoeiras che mossero verso il futebol de varzea, un calcetto giocato su terreni abbandonati, proprio a causa del bando al jogo promulgato nel 1890 dal dittatore Deodoro. La scaltrezza del calciatore brasiliano viene proprio dalla capoeira. Uno dei presidenti del Botafogo, João Lyra Filho (etnologo, accademico, fu anche presidente dello sport confederale brasiliano, n.d.r.) l’ha rivendicato apertamente: la malizia è il terreno franco dove si incontrano il calcio e la capoeira. In tempi recenti, per allenare i suoi giocatori a finte e controfinte, l’allenatore del San Paulo Celinho li faceva addestrare con la roda. Tutti conoscono Garrincha e i suoi dribbling: vi era solo un difensore che lui non riusciva a saltare, Jordam del Flamengo. Sai perchè? Era esperto di capoeira, e perdipiù passista di samba! [...] Il fatto che la roda sia avvolta dalla musica e dal canto ne rafforza il senso del rituale all’interno di un percorso di iniziazione, di crescita personale, di sintonia con le forze del cosmo, di autoconsapevolezza: in questo senso lo spazio della roda è un luogo sacro e, soprattutto con la capoeira tradizionale, Angola, che è più lenta, si ottiene di spezzare le tensioni soggettive mediante il rallentamento del movimento, di favorire uno sorta di trascendenza, di elevazione spirituale. La circolarità, la musica, la fluidità inducono il praticante in un stato di superiore attenzione nel quale aumenta la capacità di percepire il proprio sé. Lo strumento a corda di accompagnamento, il berimbau, si appoggia con la cassa di risonanza sotto lo stomaco, dove gli orientali collocano il chakra del basso ventre, il dantien, fonte dell’energia. Uno strumento simile, a Cuba si chiama murubumba che significa strumento che parla coi trapassati. Io dico pertanto che la capoeira è figlia del cielo, della terra, del vento e del mistero. [...] La capoeira è eminentemente brasiliana. In tutto e per tutto. Il fatto che vi sia una modalità detta dell’Angola è frutto di un equivoco etimologico. N’golo, un termine afro, indicava per analogia le movenze della capoeira: Angola è una deformazione fonetica. La capoeira non esiste in Angola, né in Mozambico, né a Lisbona e in nessun altro luogo che non sia il Brasile. La sua origine è in realtà indigena. Ca-apoeira è lessico tupi-guaranì: il primo testimone a descriverla, osservando gli indios, è il fondatore della città di San Paolo, il gesuita José de Anchieta, che ne parla in una cronaca del 1595. Poi la capoeira si è arricchita di altri elementi; divenne l’arte marziale degli schiavi. Era di casa nelle piantagioni lungo la fascia costiera dove gli schiavi la praticavano spesso a mani legate: di qui la preferenza per le tecniche di piede e per le schivate. Infatti non ci sono parate come in altre arti marziali. Era praticata nei quilombos, le comunità alla macchia dei fuggiaschi africani. I capoeiras sono sempre stati combattenti temibili: nelle guerre col Paraguay, son stati loro a salvare l’onore militare del Brasile contro i propri mercenari in rivolta! Sicchè la capoeira è non solo la cultura, ma anche la storia del Brasile. Di certo, non si può concepire una capoeira senza l’elemento nero: sarebbe come pensare la Nba senza gli afroamericani! [...] Con gli occhi del pregiudizio la capoeira era vista in passato come un retaggio di sottosviluppo. Il vecchio praticante poteva essere un po’ malandro, che è anche il tipismo del modo di fare carioca. I capoeiras erano discriminati semmai per il loro spirito di indipendenza. Il capoeira è un uomo libero; un ribelle, ma sodale; un insofferente alle dittature. Nelle favelas la capoeira è piuttosto un veicolo di integrazione sociale, in quanto implica un programma di disciplina personale e di socializzazione che tende a circoscrivere i comportamenti aggressivi nella roda e a potenziare viceversa la fiducia in sé stessi dei più timidi. [...] L’efficacia marziale della capoeira dipende dalla potenza intrinseca che è nella velocità; e nella circolarità delle tecniche girate, come il compasso o la armada, che in una situazione reale di difesa possono risultare davvero micidiali. Un altro elemento molto importante è però l’automatismo dell’esecuzione: i riflessi condizionati dall’allenamento fanno sì che il corpo sia perfino più rapido del pensiero, pronto a reagire d’istinto a qualsiasi attacco. [...] un’arte, anzi una somma di arti: c’è la marzialità, c’è la musica, c’è il componimento poetico che l’accompagna. C’è una cultura profonda. C’è la trascendenza, la ricerca di sé stessi. Ma è anche uno sport, un salutare esercizio di fitness, uno show, un piacere: è il gioco della capoeira...”» (Marco Perisse, ”il manifesto” 11/6/2005).