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 2005  giugno 08 Mercoledì calendario

Problemi linguistici e filosofici delle foto Quale realtà? Una, nessuna e centomila. La Stampa 08/06/2005

Problemi linguistici e filosofici delle foto Quale realtà? Una, nessuna e centomila. La Stampa 08/06/2005. Ogni settimana i giornali patinati di grande tiratura ci offrono le foto-shock dell’altra metà del mondo, guerre, miserie, nuove povertà, tutto con colori brillanti e a tinte pastello, accanto a immagini di modelle anoressiche o a quelle di innovative architetture contemporanee. L’immagine non scandalizza più? Non parla? Si è consumata? Susan Sontag, la saggista e scrittrice americana scomparsa pochi mesi fa, ha scritto che spesso le immagini senza le parole sono monche, non dicono molto o abbastanza. John Berger, dal canto suo, ha costruito un intero ragionamento sull’uso della didascalia nel fotogiornalismo, genere oggi così di moda, mentre Roland Barthes era intervenuto già negli anni Cinquanta per segnalare l’uso shock delle foto, il loro modo di "sovracostruire sempre l’orrore". Da qualche tempo gli storici ci dicono che le testimonianze sono per definizione soggettive e condannate all’inesattezza. E tuttavia la storia si fa con i testimoni, con quei particolari testimoni che sono i documenti ma anche le immagini, oltre che con le voci dei protagonisti principali o secondari. La psicoanalisi e le filosofie del XX secolo ci hanno fatto comprendere che il reale si presenta a noi non sotto la forma dell’intero, ma attraverso dettagli, oggetti parziali. Le stesse immagini hanno una natura di per sé lacunosa. Georges Didi-Huberman, oggi il maggior storico dell’arte francese, dedito allo studio della contemporaneità, ha scritto un intero libro, Immagini malgrado tutto (Cortina, pp. 228, e 24,00) dedicato a questi problemi. Non parla direttamente dell’attualità, affronta invece la questione da un altro versante, non meno scottante: lo sterminio degli ebrei d’Europa e le sue immagini. La storia è poco nota, ma merita conto di essere raccontata. Il 4 luglio 1942 fu creato nel lager di Auschwitz il primo Sonderkommando. Era composto di prigionieri ebrei e doveva servire a smistare i cadaveri e a bruciarli dopo la camera a gas. Da quella data dodici squadre si succedettero nell’orribile lavoro. Ognuna resta in carica pochi mesi, poi anche i becchini del crematorio venivano gasati e bruciati. Un giorno dell’estate del 1944 i membri del Sonderkommand sentirono l’esigenza di scattare delle immagini del loro inguardabile lavoro. Una iniziativa estremamente pericolosa che poteva costare la vita. Di quell’impresa testimoniale restano quattro scatti, due serie di immagini. Le ha realizzate un ebreo greco di nome Alex aiutato dai suoi compagni, mentre David Szmulewski - di lui conosciamo invece il nome - salì sul tetto del crematorio fingendo di ripararlo. Alex entrò nella camera a gas appena svuotata e scattò due volte. Sono istantanee incorniciate da una mascherina nera - l’edificio - che mostrano uomini che stanno trascinando i cadaveri delle fosse di incinerazione. Si vedono distintamente i corpi a terra, mucchi di cadaveri nudi, mentre dietro di loro si alza un grande fumo biancastro. In piedi i becchini del crematorio si muovono per completare il loro orribile lavoro. Le altre due immagini della serie ritraggono degli alberi e delle donne nude: le deportate che stanno per entrare nella camera a gas. L’immagine è sfumata e ruotata di novanta gradi, segno che è stata presa camminando, schiacciando il bottone della macchina senza guardare dentro l’obiettivo, probabilmente una Leica, fatta arrivare nel Lager dalla resistenza polacca. Nella seconda istantanea, oggi conservata al Museo di Auschwitz, si vedono solo ombre e masse nere. Intorno a queste quattro immagini si è sviluppato di recente un dibattito polemico in Francia che si è svolto su una delle riviste storiche della sinistra intellettuale francese, Les Temps modernes, che ha coinvolto anche Claude Lanzmann, l’autore del film Shoah. Tutti schierati contro Didi-Huberman. L’occasione è stata una mostra, Memoria dei campi, curata da C. Chéroux, arrivata anche in Italia con un bel catalogo edito da Contrasto. Dello sterminio nazista esistono pochissimi documenti visivi. I tedeschi, di cui è nota la propensione burocratica e archivistica di registrare tutto, avevano proibito di scattare immagini alle SS dei campi; immagini di uso privato forse ce ne sono ma non sono state trovate. Esistono invece foto segnaletiche dei detenuti, polacchi e politici internati, e alcune riprese. Ad Auschwitz c’erano infatti due laboratori di fotografia. Questo ha fatto dire e scrivere ad alcuni che la Shoah resta senza immagine. Ci sono molte fotografie scattate all’arrivo delle truppe russe e alleate. In particolare gli americani hanno realizzato dei film sconvolgenti sullo stato dei campi. Susan Sontag, cui dobbiamo uno dei più importanti libri dedicati alla fotografia (Sulla fotografia, Einaudi), uscito in America nel 1973, vi racconta di aver avuto la sua epifania negativa in una libreria di santa Monica nel 1945, quando vide esposte le foto di Bergen-Belsen e di Dachau: "Niente di ciò che ho visto dopo - in fotografia o nella realtà - mi ha colpito così duramente e profondamente. Erano fotografie di un evento di cui avevo appena sentito parlare e sul quale non potevo avere alcuna influenza, di sofferenze che riuscivo a stento a immaginare senza che potessi fare nulla per alleviarle". Si può vedere la Shoah? Cosa sono le fotografie scattate dai becchini di Auschwitz a costo della loro vita? Giorgio Agamben ha scritto alcuni anni fa un libro intelligente, Cosa resta di Auschwitz (Bollati Boringhieri), in cui tuttavia sostiene che gli unici testimoni veri dello sterminio nazista sarebbero i "mussulmani", ovvero gli uomini che nel Lager hanno perso ogni volontà di vivere e come larve in procinto di scomparire vagano occhi verso terra nel campo. I testimoni veri sono coloro che sono scomparsi nel gorgo della storia. Primo Levi ha scritto alcune righe che, se forzate, potrebbero far interpretare in questo modo la sua stessa testimonianza, contraddicendo la sua testarda volontà di testimoniare qualcosa che è difficile da raccontare o anche solo da immaginare. La sua paura di non essere creduto chiude come un sigillo angoscioso i suoi due primi libri su Auschwitz, Se questo è un uomo e La tregua. Ora il tema della testimonianza, ma anche delle immagini, viene sollevato da Didi-Huberman. Il filosofo si chiede: cosa fanno vedere quelle immagini? Di che tipo di immagini si tratta? Cosa sono in definitiva le immagini? Che rapporto c’è tra "vedere" e "immaginare"? In un bel libro recente Gabriele D’Autilia (L’indizio e la prova. La storia nella fotografia, Bruno Mondadori), ha dedicato a questo tema un capitolo intitolato "Il non fotografabile". E’ stata la prima guerra mondiale con il massacro delle trincee e con la battaglia delle informazioni a imporre il tema: qual è il limite nella rappresentazione della morte e della violenza? Si tratta di una questione sempre attuale dopo le guerre jugoslave, i massacri ceceni, i morti dell’Iraq. George Rodger, corrispondente di guerra di Life, arrivato a Bergen-Blesen cerca faticosamente l’inquadratura giusta davanti al mucchio dei cadaveri: nei due anni seguenti smette di fare fotografie. Didi-Huberman analizza con sottigliezza le quattro istantanee del Sonderkommand e cerca di capire come e perché una fotografia può mostrare il reale e quale sia il suo statuto di verità (problema che hanno anche i documenti scritti, ma che le immagini, per ragioni ovvie, hanno ancor di più: cosa dimostra che quell’immagine sia stata davvero scattata proprio in quel luogo?). La risposta, sostiene l’autore di Immagini nonostante tutto, la si trova in Hannah Arendt, in un testo sul processo intentato ai criminali nazisti dopo la fine della guerra. Dice la filosofa ebrea che, nel suo scritto, il lettore potrà trovare invece della verità solo dei "momenti di verità". Di fronte al sempre maggior conformismo visivo che ci attanaglia, conformismo che riguarda, come ha scritto Imre Kertesz, anche l’Olocausto - sentimentalismo dell’Olocausto, dei discorsi sull’Olocausto, tabù e rituali per il consumo dell’Olocausto - Didi-Huberman suggerisce di reclamare uno sguardo più esigente, uno sguardo critico che non si lascia corrompere da quella che egli chiama "l’illusione referenziale", ovvero l’uso delle immagini per semplificare il reale. Marco Belpoliti