Varie, 10 giugno 2005
FERRAGAMO Wanda
FERRAGAMO Wanda Bonito (Avellino) 23 dicembre 1921. Moglie di Salvatore che «[...] ha dato vita a un’industria tra le più rappresentative dell’industria italiana della moda [...] Nato a Bonito, paesino “senza via d’uscita” (“c’era una sola strada per arrivarci, ed era sola stessa che dovevi percorrere per andartene”) sui monti dell’Appenino Meridionale, a un centinaio di chilometri da Napoli, Salvatore Ferragamo era di famiglia umile. I suoi fratelli (era l’undicesiomo di quattordici) a uno a uno erano emigrati tutti negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Lui, con la vocazione di calzolaio nel sangue, prima cercò di farsi strada a casa sua, cominciando col raddrizzare chiodi nella bottega del ciabattino di paese e arrivando ad aprire un piccolo negozio in cui vendeva le calzature su misura che confezionava con l’aiuto di alcuni lavoranti: poi, capendo che quello che aveva ottenuto era il massimo che Bonito gli potesse offrire, seguì i fratelli negli Stati Uniti. E a Los Angeles a contatto con il mondo del cinema che in quegli anni, tra il 1915 e il 1920, cominciava a decollare come industria, prese il via la sua carriera di “calzolaio delle dive”. Salvatore Ferragamo diventò in berve tempo il beniamino delle major cinematografiche che gli commissionavano le calzature che gli attori avrebbero indossato nei film [...] Quando l’industria cinematorafica si trasferì a Holywood, nel 1923, era già un mito. La fama e il successo raggiunti non gli consentivano però di rimanere nell’ambito di una piccola produzione. Doveva ingrandirisi, e pe trovare la manodopera all’altezza della qualità del suo prodotto doveva tornare in Italia. Così fece. Comprò a rate Palazzoo Spini Feroni a Firenze, che ancora oggi rappresenta il cuore dell’azienda [...] Era il 1938. Due anni dopo, in visita ai parenti rimasti a Bonito, conobbe quella che in pochi minuti capiì che sarebbe diventata sua moglie. Lui aveva già quarant’anni, ventidue più di quella ragazzina, figlia del medico condotto e sindaco del paese, su cui aveva messo gli occhi. Ma non aveva avuto dubbi: subito dopo averle stretto la mano, si era girato verso la sorella che lo accompagnava e, in inglese, per non farsi capire, aveva detto: “Questa ragazza diventerà mia moglie”. Successo proprio così, tre mesi dopo. Per conquistarla, nel caso ce ne fosse stato bisogno, le mandò mazzi di fiori (prima le tuberose, poi le rose rosse) e confezionò per lei, dopo averle preso le misure, un paio di scarponcini in camoscio nero con il tacco di 7 centimetri [...] alla morte di Salvatore, nel 1960, priva di qualsivoglia esperienza manageriale, è stata lei che ha preso in mano le redini dell’azenda e ha consentito non solo che sopravvivesse, ma che si ingrandisse [...] “Salvatore morì in luglio; il più piccolo die nostri sei figli, Massimo, aveva due anni. Vivevamo nell’agio [...] avrei potuto crescere i miei figli senza preoccupazioni e senza farmi carico dell’azienda. Ma pensavo alle maestranze che lavoravano per noi, e conoscevo i progetti di Salvatore, non volevo tradirli. Così il primo di settembre la fabbrica riaprì regolarmente; gli operai ancora non sapevano che Salvatore era morto” [...]» (Donatella Bogo, “Sette” n. 21/2001).