Varie, 9 giugno 2005
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COLAJANNI Napoleone Catania 9 maggio 1926, Roma 8 giugno 2005. Economista. Politico • «[...] All’improvviso, mentre discuteva, la sua faccia grifagna passava in un lampo dalla luce dell’ironia al temporale della polemica
COLAJANNI Napoleone Catania 9 maggio 1926, Roma 8 giugno 2005. Economista. Politico • «[...] All’improvviso, mentre discuteva, la sua faccia grifagna passava in un lampo dalla luce dell’ironia al temporale della polemica. E quegli occhi azzurri che guizzavano sotto candide sopracciglia leonine, gli stessi che fino a un momento prima avevano sedotto col sorriso l’interlocutore, lo inchiodavano al suo posto mentre si scatenava una tempesta di accuse roventi, di paradossi taglienti e di sarcasmi al vetriolo. Era fatto così, Napoleone Colajanni, il siciliano testardo con la vocazione del ribelle, il comunista senza miti che nella sua vita ha attraversato controcorrente la sinistra italiana, ”riformista nel Pci e socialista sempre”, circondandosi di mille estimatori e di mille nemici, pur di togliersi ogni giorno la soddisfazione di dire pane al pane e vino al vino. Era un ingegnere con la passione per l’economia, e molti hanno imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo per i suoi libri sulle banche, sulla grande impresa e sulle partecipazioni statali (celebre la sua definizione sprezzante dei manager lottizzati, ”razza cialtrona”), ma è nella politica che lui ha lasciato il solco più visibile e più netto. Nipote di un altro Napoleone Colajanni - lo storico fondatore del partito repubblicano, ardente garibaldino e poi autorevole senatore del Regno, morto un anno prima della marcia su Roma - fu contagiato dal virus dell’ideologia leggendo i libri del nonno, scoperti per caso durante un trasloco a Palermo. Così a sedici anni prese la tessera socialista, che restituì quattro anni dopo per aderire al Pci. Era solo un militante, ma nelle sezioni di Palermo si fece subito notare, e un giorno Paolo Bufalini lo mandò a chiamare. ”Mi chiese di passare dalla libera professione alla professione del rivoluzionario” raccontò più tardi lui stesso. ”Io però, gli dissi, ho una riserva su Stalin. Bufalini non battè ciglio: non ti chiediamo di cambiare idea, rispose”. Quel giorno - era la primavera del 1950 - Napoleone Colajanni diventò un funzionario comunista, ma un funzionario anomalo, allergico alla gerarchia e per nulla diplomatico. Aveva sempre la battuta pronta ed era tanto coraggioso quanto permaloso, insomma non rispondeva affatto al perfetto identikit del politico palermitano, in una città che dal tempo dei Normanni coltiva l’arte sopraffina della dissimulazione. Quando si candidò, nel 1959, alla segreteria della federazione di Palermo, era già pieno di nemici. Era il tempo delle liste bloccate, ma lui si inventò gli ”eccedenti”. ”Io - disse ai suoi avversari - vi metto tutti in lista con me, saremo 110 per 100 posti, e si vota a scrutinio segreto. Se resto fuori io, amen. Ma se vengo eletto non mi romperete più i coglioni”. Vinse lui, col 98 per cento. Da allora, nel Pci hanno dovuto fare i conti con questo siciliano sgobbone ma indomabile, generoso ma un po’ eretico, e lo hanno guardato con sospetto quando difendeva le centrali nucleari, quando frequentava Enrico Cuccia o quando lodava Bettino Craxi. Fu lui, però, a guidare con forza leonina l’ostruzionismo al Senato al decreto sulla scala mobile, il provvedimento che segnò la frattura tra Craxi e Berlinguer. Quanto al partito, negli ultimi vent’anni ha menato fendenti a destra e a manca. Fu il primo - tre anni dopo la morte del leader - a criticare aspramente Berlinguer, rimproverandogli una gestione accentratrice e aristocratica e soprattutto il compromesso storico. A Natta, rinfacciò di aver fatto terra bruciata attorno al Pci: ”Con chi puoi interloquire, quando hai offeso tutti senza eccezioni? Possibile che gli altri siano tutti ladri e disonesti?”. Al suo successore dedicò addirittura un pamphlet al curaro, ”La resistibile ascesa di Achille Occhetto”, votandogli contro e dimettendosi addirittura dal Comitato centrale, gesto senza precedenti nell’intero dopoguerra: ”Non potevo votare per uno che cominciava la sua relazione al congresso con l’Amazzonia”. Lui che era stato uno dei primi a esortare il Pci a cambiare nome, non rinnovò la tessera dal 1989. Ma questo non gli impedì di consegnare ai giornali le sue scudisciate ai leader del suo ex partito, da D’Alema (’Io sarò un migliorista, ma lui di sicuro è un peggiorista”), a Veltroni (’La sua Terza Via è una dottrina mediocre, la scimmiottatura del modello americano”) a Fassino, al quale non perdonava l’ambiguità tra il sogno riformista e il progetto ulivista.
Parlamentare per vent’anni, non ha mai avuto cariche di potere: era un prezzo che sapeva di dover pagare, per conservare fino a 79 anni la libertà di andare controcorrente» (Sebastiano Messina, ”la Repubblica” 9/6/2005). «[...] portava il nome del nonno, in gioventù garibaldino e poi eminente uomo politico, tra i fondatori del Partito repubblicano. Una famiglia di intellettuali e di progressisti. Laureato in ingegneria, come il padre, dopo la Liberazione si iscrisse al Psi, aderendo al gruppo di Iniziativa socialista. Quando, nel ’47, ci fu la scissione di Saragat approdò al Pci assieme ad un gruppo di socialisti ed intellettuali palermitani come Mario Mineo, Nicola Cipolla, Nando Russo. Dotato di grande curiosità e con molteplici interessi, fu un organizzatore della vita culturale e politica della Palermo di quegli anni. Grande appassionato di film animò il circolo del cinema: la passione per le pellicole lo ha accompagnato, come la politica e l’economia, per tutta la vita. Collezionava titoli cinematografici e si vantava di avere un’invidiabile cineteca. Tra il ’50 e il ’51 Paolo Bufalini, allora vicesegretario del Pci in Sicilia, il segretario era Girolamo Li Causi mentre Emanuele Macalauso guidava la Cgil regionale, gli offrì di entrare nel partito come funzionario. Anni difficili, anni in cui essere comunisti significava sfidare la mafia e i grandi possidenti terrieri. Ma Colajanni non aveva paura della lupara o dei
manganelli della celere, no, a fargli paura era l’ortodossia. Utopista e spirito libero, non voleva piegarsi a nessuna ragione di partito. E allora chiese: ”Voi mi garantite libertà di pensiero? Io sono contro Stalin, non mi piacciono le dittature, e voglio
poter dire sempre quello che penso”. ”Ma sì, certo, c’è una disciplina di partito, ma è politica, non ideologica”, lo rassicurò, di sicuro in buona fede, il mite Bufalini. E così cominciò il lungo viaggio nel più grande partito comunista dell’Occidente, un viaggio conclusosi un anno prima dell’89, quando il muro di Berlino era ancora lì e il Pci non aveva cambiato nome. All’inizio fu segretario della federazione di Caltanissetta, poi di Palermo, quindi dirigente regionale e poi l’elezione al Parlamento, dove è rimasto fino all’87: prima deputato, poi senatore. E mentre le prime due volte i voti li chiese e li ottenne nella sua Sicilia, la terza elezione la conquistò nel collegio di Torino, andando a parlare ai tanti emigrati che avevano trovato lavoro alla Fiat e nell’indotto. Alla battaglia politica ha sempre affiancato gli studi economici, approfondendo temi e argomenti che poi sono stati oggetto sia della sua attività parlamentare sia di articoli e di libri. Un meridionalista appassionato. Una delle voci più ascoltate, fuori e dentro la sinistra. Conosceva cinque o sei lingue e ha girato tutto il mondo, dall’America alla
Cina. Nel partito comunista ha sempre dato battaglia, stava con i riformisti, quelli che una volta venivano chiamati i miglioristi. Come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Paolo Bufalini e Emanuele Macaluso. Lui avrebbe voluto condurre con più forza la lotta contro il centralismo democratico, quella regola che imponeva alla fine di ubbidire alla linea decisa dal partito. Lui avrebbe voluto che tutte le idee avessero dignità politica. E quello di non aver fatto fino in fondò la battaglia per l’organizzazione delle minoranze era uno dei suoi crucci. Nell’88 l’addio, in aperto dissenso con l’elezione a segretario di Achille Occhetto, dirigente che non stimava e non riteneva all’altezza del compito. Uscì dal comitato centrale e alla guida della sua roulotte se ne andò in vacanza in Finlandia. [...]» (Marco Cianca, ”Corriere della Sera” 9/6/2005).