La Repubblica 18/05/2005, pag.60 Emanuela Audisio, 18 maggio 2005
Il pugile che salvò l’America dalla Grande Depressione. La Repubblica 18/05/2005. Los Angeles. Nelle strade no, stanno male
Il pugile che salvò l’America dalla Grande Depressione. La Repubblica 18/05/2005. Los Angeles. Nelle strade no, stanno male. Sul ring sì, stanno bene. E l’ America li cerca sempre lassù i suoi miserabili, sul ring. Anzi, ce li butta di peso. Perché vuole sentirsi dire che almeno lassù ognuno ha quello che si merita. Hollywood ha un modo tutto suo per far vincere chi perde: da Rocky a Million dollar baby, da Clint Eastwood a Ron Howard, premio Oscar nel 2001 per A beautiful mind. Quando si spengono le luci, il ring diventa una falce e martello, una reliquia marxista, ti spiega la fatica fatta per appartenere. Cinderella man, si chiama, l’ ultimo sguardo sul ring. Cenerentola è Russell Crowe, gladiatore alla rovescia. "Ci siamo picchiati così sul serio durante le riprese che ero sempre indolenzito, soprattutto alla schiena e alle braccia. Mi è piaciuto interpretare Braddock, un eroe normale, attaccato alla famiglia, capace di cadere e di rialzarsi, senza vendersi alla droga, all’ alcol, alla rabbia". Cinderella man non è straordinario, non è Toro scatenato, e forse come Rocco e i suoi fratelli non è nemmeno una film sulla boxe, ma sull’ America che ha camminato nel buio, come già raccontato da un altro film Seabiscuit. Il regista, Ron Howard, dice di essere stato sempre ossessionato dalla Grande Depressione che devastò e affamò le metropoli americane: "Vorrei ricordare che i poveri esistevano una volta e ci sono oggi, viviamo in una società sempre più angosciata e fragile: basta una crisi, e tante vite sicure possono andare all’ aria". James J. Braddock, a fine anni ’ 20, stava scalando il mondo, forse solo Babe Ruth dei New York Yankees era in un momento migliore. James era uno dei giovani pugili più promettenti, irlandese di origini, portava il trifoglio cucito sui pantaloncini. Combatteva, vinceva, incassava, 15 mila dollari a incontro, i risparmi li metteva in banca. Le carriere falliscono, Wall Street no, pensava. Ma la Borsa è un altro tipo di ring, perde sempre male, nel ’ 29 quella di New York crollò e ammazzò il paese. Braddock vide svanire tutto il suo denaro, più 300 mila dollari. In un soffio si ritrovò nel sottoscala, se cadi dall’ alto ti fai più male: non era più un campione, ma un miserabile. Continuò a lottare, perché quello i pugili fanno, ma con le scarpe bucate e con i debiti, dal lattaio alla compagnia del gas, certi movimenti non riescono bene. L’ America era a terra, depressa. Braddock pure. Nell’ estate del ’ 29 fu sconfitto da Tommy Loughran per il titolo dei massimi leggeri, continuò, ma perse 16 combattimenti su 26, una statistica orribile. Il 25 settembre 1933 si ruppe la mano destra sulla mascella di un ventenne Abe Feldman, mano che si era frantumato altre due volte. Annunciò il suo ritiro, nessuno se ne accorse. Scese dal ring e camminò verso il fronte del porto. Cercò lavoro a Hoboken e Weehawken, in New Jersey. Come scaricatore, a 4 dollari al giorno. Non sempre avevano bisogno di lui, la fila era lunga. Nella primavera del ’ 34 nessuno si ricordava più il suo nome. Dormiva con moglie e tre figli in uno scantinato, gli avevano staccato gas e luce, campava con la tessera assistenziale, 24 dollari al mese. La commissione pugilistica gli rifiutò due volte la licenza, non era in grado di combattere. A credere che avesse ancora una carriera sul ring c’ era solo il suo manager, Joe Gould, che cercava inutilmente di piazzarlo ovunque: "Ha solo 28 anni, ha spaccato un sacco di avversari". Gould stazionava sempre davanti all’ ufficio di Jimmy Johnston, organizzatore di boxe. Johnston cercava un sottoclou per il mondiale Carnera-Baer e un avversario per John Corn Griffin, pugile in ascesa e sparring del campione italiano. Gould insisteva per Braddock, il promoter inveì: "Non mi parlare più di lui, Corn lo ammazzerà, non voglio sangue sulle mie mani". Ma alla fine acconsentì: "Non te la prendere con me se il tuo vecchio irlandese viene ucciso, non vi do più di 250 dollari". Gould prese il ferry e andò al porto, nei cantieri. Braddock era lì, cotto dalla fatica e dal sole, si tolse i guanti da lavoro. "Devi combattere dopodomani, sei in forma?", gli chiese. "Ho fame", fu la risposta. Si divisero i cento dollari dell’ anticipo, lui gli diede alla moglie che saldò il lattaio. Andò in palestra solo il giorno prima del match, dopo nove mesi aveva bisogno di togliersi la ruggine. Era quella di Stillman, sull’ Ottava Avenue, frequentata da tutti, anche da Dempsey e da Joe Louis. Gould conosceva Braddock ma quello che vide lì fu un’ altra persona. Il pugile era cambiato: colpiva con tutte e due le mani, si muoveva diversamente, era più ostico. E anche l’ uomo: aveva imparato a sopravvivere. La sera del match Braddock salì sul ring con vecchi calzoncini e scarpe prese in prestito. Nessuno lo notò. Griffin andò subito a cercarlo con un diretto destro, dominò il primo round e nel secondo lo spedì al tappeto. Braddock aspettò il conteggio fino a nove, si alzò, andò verso Griffin, lo colpì al mento con un destro corto che l’ altro nemmeno vide, ma sentì. Continuò a picchiare anche nel terzo round che l’ arbitro interruppe dopo 23 secondi. Griffin era finito, Braddock rinasceva. Era il suo primo ko in 18 mesi, il secondo in quattro anni. Aspettò che il manager gli passasse la spugna sul viso, ma Gould la passò sulla faccia di Griffin: "Ne ha più bisogno di te". Nello spogliatoio James aprì una birra e cercò invano una doccia. Cinderella man, lo chiamarono così. Cenerentola a volte non perde scarpe, ma guantoni. Un anno dopo, il 13 giugno 1935, Braddock ritornò al Madison Square Garden per combattere Max Baer che aveva tolto il titolo dei massimi a Carnera. Non lavorava più come scaricatore, ma ormai tutti sapevano che era un poveraccio, sotto sussidio, uno di quelli con il cappello in mano: "Hai un centesimo?". Braddock si allenò in palestra dieci ore al giorno e ringraziò l’ America che gli dava la possibilità di ricominciare. Era il grande sfavorito, condannato a provarci, non a farcela. L’ altro era più giovane, più forte, più esperto. Baer si presentò alla stampa parlando del futuro, di Joe Louis, della pubblicità che aveva girato con Myrna Loy, anche lui avrebbe fatto l’ attore, aveva già alcune parti in tre film. Ai suoi allenamenti invitò Clark Gable, Errol Flynn e John Barrymore. Gli chiesero: "E Braddock?". Lui alzò le spalle: Braddock non era un problema, dai. Cenerentola sta in cucina, non a sbafarsi il mondo. Baer avrebbe vinto, i pronostici non avevano dubbi. Ma l’ America quando sale lassù, ci sale tutta: vuole riconoscersi, amarsi, essere pura e disperata. Il tifo fu per Braddock, per l’ America dei vagabondi, dei disgraziati, hai un centesimo? Baer restò confuso, si trovò davanti un rivale intelligente, che lo evitò, ma aggressivo nel momento giusto, soprattutto con il sinistro. Riuscì a mollare un destro potente, di cui Braddock sentì la scossa "fino alla punta dell’ alluce". Al settimo Braddock lo colpì alla testa con un destro, che non aveva più la potenza di una volta. Baer incassò e si mise a ridere, l’ altro gli sussurrò: "Max, stai indietro nei punti, fossi in te inizierei a combattere". Era vero, Baer stava perdendo. A cinque minuti dalle fine Braddock lasciò partire due destri alla testa, al suono della campana disse al manager: "We did it", ce l’ abbiamo fatta. Lo pensò anche l’ America, forse era tornato il momento di sedersi a tavola. Non erano stati 15 round di grande boxe, ma di sorpresa e di schiena dritta. Il presidente F.D. Roosevelt gli mandò un telegramma: "Lei ha fatto uscire il paese dalla Grande Depressione". Un contadino che aveva pensato al suicidio gli scrisse dal Kansas: "C’ è ancora speranza". Il nuovo campione del mondo fece un sacco di foto nei giorni seguenti, la posa era sempre la stessa: lui che mangiava una bistecca. Emanuela Audisio