5 giugno 2005
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Millhauser Steven
• Nato a New York (Stati Uniti) il 3 agosto 1943. Scrittore. Ha compiuto i suoi studi universitari al Brown College. Il suo romanzo d’esordio, Edwin Mullhouse: The Life and Death of an American Writer, è uscito nel 1972 e ha vinto il Prix Médicis in Francia per la migliore opera straniera. Negli anni successivi lo scrittore ha pubblicato diversi libri di racconti (in Italia, Einaudi ha pubblicato nel 1995 la raccolta La principessa, il nano e la segreta del castello) e tre romanzi: il più famoso, Martin Dressler (edito in Italia nel 2004 da Fanucci) ha ricevuto nel 1997 il premio Pulitzer. Spesso paragonato negli Usa ad autori come Angela Carter, Millhauser vive a Saratoga Springs e insegna letteratura inglese allo Skidmore College (’il manifesto” 30/8/2005).«Nel 1975 ha vinto il Prix Médicis per l’opera prima, nel 1987 l’American Academy and Institute of Arts and Letters gli ha assegnato l’Award in Literature, nel 1997 è arrivato il Premio Pulitzer per il romanzo. La critica del suo paese, gli Stati Uniti, lo colloca tra i grandissimi del romanzo, e in Francia, dove è molto amato, alcune delle sue opere vengono definite ”capolavori” da critici di solito assai parchi di elogi. In Italia, invece, Steven Millhauser resta ai margini dell’attenzione di critica e pubblico, nonostante nel 1995 Einaudi abbia pubblicato due suoi racconti (La principessa, il nano e la segreta del castello) e Fanucci abbia proposto [...] due dei suoi romanzi più importanti, ovvero Martin Dressler. Il racconto di un sognatore americano e Edwin Mullhouse. Vita e morte di uno scrittore americano. Ma forse non è strano che proprio in un paese come il nostro, dove autori Usa di terza categoria vengono considerati ”maestri” o ”abbaglianti rivelazioni” già al loro primo vagito letterario, Millhauser abbia registrato un interesse relativamente tiepido, cui fa da contrappeso l’entusiasmo di alcuni lettori innamorati. Nel panorama quasi clonico della letteratura americana contemporanea, Steven Millhauser appare molto lontano dall’identikit dello scrittore trendy, da festival letterario e da reading a briglia sciolta: non è giovanissimo, né ”maledetto”, non somiglia a nessuno, scrive e vive nell’ombra, sfugge alle interviste, rifiuta di vedersi e proporsi come personaggio. E i suoi libri sono complessi, lenti, insoliti, basati su una architettura sapiente, un linguaggio limpido che utilizza registri diversi, possiede il gusto del mimetismo, una sorprendente ricchezza metaforica e il gusto della parodia, attinge a una immaginazione fitta di visioni e di allusioni erudite ma lievi. Uno scrittore capace di gettare le sue reti al largo, insomma, e di catturare meraviglie di ogni genere da includere negli universi secondari pazientemente costruiti attorno a personaggi come il precoce scrittore suicida Edwin Mullhouse, il magnate sognatore Martin Dressler, il pittore Edmund Moorash, animati dal desiderio di creare un mondo nuovo che risponda ai propri sogni e alle proprie passioni, e tuttavia non sia personale e privato, ma diventi capace di superare la realtà in cui tutti viviamo, aprendosi, come un museo o un’immensa biblioteca o un circo o un labirinto, allo stupore degli altri. Anche se le sue radici stilistiche e la sua estetica letteraria sembrano legate all’Europa, Millhauser è profondamente americano proprio in questo suo bisogno di edificare nuovi mondi fantasticamente ”concreti”, utopici, illusori ma più veri del vero: la sua America è una terra da inventare, dove passato, presente e futuro si intrecciano e si confondono, come in From the Realm of Morpheus (1986), in cui Carl Hausman, il narratore, durante una partita di baseball perde una palla e nel cercarla entra nell’universo sotterraneo dove regna Morfeo, bon vivant dal linguaggio fiorito, che lo introduce in una biblioteca borgesiana in cui sono raccolti tutti i libri mai scritti oppure perduti e incompiuti, finalmente completi di pagine e capitoli mancanti. E se il viaggio di Hausman, come quello di Martin Dressler all’interno del suo albergo delle meraviglie, fa immediatamente pensare a Swift o a Lewis Carroll, quello di Edwin Mullhouse (il protagonista del primo romanzo di Millhauser che Bernardo Draghi ha reso così bene in italiano, nonostante la considerevole difficoltà del testo inglese) ci rimanda a Cartoonia, al mondo colorato e surreale dei cartoni animati, a una infanzia sospesa tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50. Non c’è dubbio che tra i cinque romanzi scritti da Millhauser negli ultimi trent’anni, Edwin Mullhouse. The Life and Death of An American Writer (1943-1954) resti il più sorprendente, per più di un motivo. Innanzitutto per le suggestioni e il fascino di un’esplorazione dell’infanzia effettuata secondo i canoni di un genere letterario canonico qual è la biografia: perché di vera e propria biografia si tratta, e a parlarci è la voce del suo estensore, il dodicenne Jeffrey, che annota i minimi eventi della vita di Edwin, suo amico e coetaneo, con la passione maniacale di un Boswell che, armato di taccuino, segua passo passo il suo Johnson per catturarne i gesti e il respiro. Di Edwin, che ”aveva sempre scritto” ed era passato da Monopoli al romanzo come da un gioco a un altro, Jeffrey comincia a occuparsi assai presto: lui ha sei mesi e tre giorni, e l’altro, immobile in una culla dove appare straordinariamente vecchio, nove giorni appena. Sin da allora nessuno dei due ha il minimo dubbio sui rispettivi ruoli: Jeffrey ha riconosciuto ”l’uccello raro”, mentre Edwin lo considera dall’alto in basso, come un principe che tratta il suo servo fedele. Edwin è della razza di quelli che vengono osservati, Jeffrey di quelli che osservano, e, sommando dettaglio a dettaglio, accumulerà un materiale enorme di cui fanno parte le descrizioni dell’amico che a tre mesi si misura con suoni, rumori e fonemi, i suoi intensi rapporti con le lettere dell’alfabeto, i titoli dei libri che riempiono via via gli scaffali, la scuola e i suoi riti privi di senso, il violento amore per Rose Dorn, compagna di scuola crudele e ammaliatrice. E infine il furore creativo che lo tiene sveglio di notte, fino al compimento di Cartoons, il romanzo che segna la sua maturità come autore, e all’improvvisa morte violenta, un sucidio inspiegabile se non con il desiderio di dare un degno finale alla biografia che Jeffrey scriverà. Se il romanzo rappresenta senza dubbio una parodia feroce del genere biografico, e se pone interrogativi altrettanto feroci su tutti coloro che ruotano intorno alla figura dello scrittore, nutrendosene e cannibalizzandola, la lettura più immediata resta comunque la più vera: fedele alla propria poetica, Millhauser ha creato un nuovo mondo secondario, trasformando l’americanissima infanzia di Edwin in una sorta di universo autoconcluso, e utilizzando a questo scopo materiali apparentemente ”vili” come fumetti, sorprese nelle scatole di cereali, minutaglie infilate nelle capaci tasche di un bambino. Così Cartoons diventa un distillato di categorie di pensiero infantili e allo stesso tempo una sorta di canto all’America bambina e ai suoi innumerevoli ”balocchi”, ma per noi che sappiamo cosa viene dopo è anche un addio a una infanzia pre-televisiva, imprevedibile, capace di sognare i propri sogni, per inquietanti che siano. E allora il suicidio ”giocoso” del bambino letterato, dell’Edwin interprete del mondo che trasferisce nella scrittura le deformazioni del cartoon, ci appare sotto una luce diversa: quella di una morte inevitabile e presaga» (Francesca Lazzarato, ”il manifesto” 30/8/2005). «[...] un particolare romanziere che sogna biografie. Immagina un uomo, l’arco della sua vita, lo tratteggia e poi lo colora minuziosamente, come fosse uno di quegli album per bambini le cui figure vanno riempite con i pastelli. I sogni di Millhauser sono scatole cinesi. In Martin Dressler, il suo libro più riuscito, Pulitzer 1997 [...] sognava un sognatore. In [...] Edwin Mullhouse - Vita e morte di uno scrittore americano sogna un biografo che scrive una biografia. A massimizzare il virtuosismo è il fatto che sia il biografo (Jeffrey) che il biografato (Edwin, appunto) sono bambini. Lo ”scrittore americano” muore a undici anni lasciandosi dietro una sola opera: il romanzo di 74 quadernetti azzurri ”Cartoons”. [...]» (’la Repubblica” 4/6/2005).