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 2005  maggio 19 Giovedì calendario

Il Paese dove i cinesi si chiamano Mario. Vanity Fair 19 maggio 2005. Questura, questura, questura"

Il Paese dove i cinesi si chiamano Mario. Vanity Fair 19 maggio 2005. Questura, questura, questura". "Consolato, consolato, consolato". "Permesso di soggiorno, permesso di soggiorno, permesso di soggiorno". Linsegnante legge ad alta voce, i ragazzi ripetono. La pronuncia è incerta, anche lei parla un italiano stentato, eppure questa è la scuola di lingue più frequentata del distretto cinese di Wenchen. Siamo a due ore dalla città importante più vicina, sulle montagne dello Zhejiang, una provincia meridionale, ricca lungo la costa e poverissima nell’entroterra. Andare a cercare lavoro altrove, da queste parti, è una tradizione antica e, per i soliti inspiegabili meccanismi dell’emigrazione - il primo che trova fortuna in una terra lontana "chiama" tutti gli altri -, questa è la Cina "gemellata" con l’Italia: dei cinesi che vivono e lavorano nel nostro Paese, l’ottanta per cento viene da qui. Alla scuola siamo arrivati per caso: lungo la strada, sul muro di una casa contadina, avevamo visto una grande scritta che diceva "lezioni di italiano per chi emigra all’estero", con un numero di telefono. Il dirigente dell’istituto è contentissimo di incontrarci. Ci chiede di aiutare l’insegnante a parlare dell’Italia, anche perché lei non c’è mai stata. La scuola è un locale sulla strada, sei file di banchi senza un posto libero. Alle pareti, cartelloni con disegni un po’ ingenui di una città italiana "tipica", con tutti i luoghi più importanti per gli immigrati - questura, prefettura, consolato, negozi, comunità cinese -, ciascuno identificato in italiano e in cinese. Ogni ragazzo ha una storia diversa. Molti studiano italiano perché sperano prima o poi di riuscire a ricongiungersi ai genitori che già vivono da noi. Qualcuno in Italia ha la moglie o il marito, qualcun altro ne ha semplicemente sentito parlare dalla gente del villaggio e sogna di andarci. Tutti conoscono qualche "italiano", cioè emigrati della zona che vivono nel nostro Paese. E tutti studiano per due mesi cercando di imparare le parole chiave, quelle che consentiranno loro di sopravvivere almeno nei primi tempi. Sono consapevoli che ottenere il visto sarà un problema, ma dicono che "con o senza visto andare in Italia non è difficile". Nessuno sa degli scafisti che buttano a mare i clandestini, perché la stampa locale non ne dà notizia. TREDICIMILA EURO. L’insegnante ci consiglia di andare a visitare un villaggio più piccolo, Youhu: lì gli "italiani" sono tantissimi. un brutto villaggio di montagna, 18 mila abitanti e 16 mila emigrati, abitazioni nuove che si affollano intorno a un centro più vecchio. All’inizio del ponte che scavalca il fiume c’è un gazebo dal tradizionale disegno cinese, tetto spiovente e punte che risalgono verso il cielo, pieno di gente che gioca a carte e scommette. Il dialogo non è facile, la lingua è più incomprensibile del solito, ma quando scoprono che siamo italiani ci indicano una porta all’inizio della strada. Lì abita una coppia che ha nove figli sparsi tra Milano, Prato e Bologna. Tutti regolari, ci dicono subito: uno ha una piccola azienda, gli altri lavorano nei ristoranti o nelle fabbriche, tutti sono sposati e hanno figli. Loro sono andati a trovarli e una volta uno dei ragazzi è tornato per farsi curare con la medicina cinese. Ma gli altri "preferiscono la vita che si fa da voi". Come ci sono arrivati, da noi? "Come tutti, con l’agenzia". Di questa entità misteriosa si parla apertamente, ma nessuno ci sa (o vuole) indicare chi sia il rappresentante locale. Come scopriremo, si tratta di un’organizzazione che, dietro pagamento di 130 mila yuan (circa 13 mila euro), organizza l’espatrio "da porta a porta", dal villaggio al territorio italiano. Con altri 50 mila yuan si può avere anche il permesso di soggiorno, aggiungono sottovoce, con un tono cospiratorio che lascia immaginare poteri sconosciuti. PER DUE ANNI SENZA STIPENDIO. Non tutto è così facile, ci dice più tardi un negoziante. Lui non ha nessuna intenzione di emigrare perché ha una buona attività, ma saprebbe come fare. L’agenzia, spiega, è un’organizzazione a tre teste. Una in Italia, l’altra in Cina e una terza in un Paese dove, se necessario, si fa ponte. "Il problema", dice, "è che in Italia avete approvato leggi che rendono più difficile ottenere il visto. Così diventano più numerosi quelli che arrivano clandestinamente. Non è difficile: l’agenzia ti fa arrivare in un altro Paese europeo, per esempio la Francia, e da lì poi si passa in Italia senza difficoltà. La prima tappa può anche essere nell’Est europeo, ma da lì bisogna poi affidarsi agli scafisti". 130 mila yuan sono tanti, dieci volte, forse più, il reddito annuo di una famiglia nel villaggio. Come pagano gli emigranti? "Lavorando per due anni senza stipendio nella fabbrica di un cinese che ha messo su un’attività in Italia". Risposta che fa somigliare sempre più la fantomatica agenzia a una mafia (a Wenchen ci racconteranno poi di un processo recente, con tre imputati condannati a venti anni di galera). MEDICINA TRADIZIONALE. Intorno a noi, intanto, si è fatta una piccola folla con molti bambini. "Lui si chiama Alessandro", ci dice una donna: ne ha in braccio uno di quattro-cinque anni che parla italiano. "Questi sono Mario e Marta", e ne indica due più piccoli, che sono nati nel nostro Paese, ma non hanno fatto in tempo a imparare la lingua. La madre tornerà a fine anno a riprenderseli. I genitori li mandano qui un po’ per stare con i nonni e un po’ perché cosi è più facile per loro lavorare per tutte le ore richieste agli immigrati dai padroni (cinesi anche loro). Lungo l’unica strada del villaggio, due fiorai - ma i fiori sono di plastica - e un locale pieno di gente seduta con una flebo nel braccio. la medicina tradizionale cinese. "Qualcuno torna a farsi curare anche dall’estero", dice la farmacista, "perché questo è un legame forte con il Paese di origine". "E qualcuno comincia a tornare per sempre", racconta l’orefice del villaggio. "Comunque, il flusso migratorio sta diminuendo, perché le condizioni economiche da voi peggiorano mentre qui il tenore di vita aumenta. La gente fa due conti e capisce che andarsene non conviene più". Non si direbbe: ore dopo ci telefona il dirigente della scuola di italiano. Ci chiede qualche libro, tergiversa un po’, poi arriva al vero motivo della chiamata. "Non è che fareste voi il lavoro di organizzazione per il visto e tutto il resto? Magari a un prezzo più basso. L’agenzia costa troppo". Manuela Parrino