Varie, 3 giugno 2005
PAGANI
PAGANI Mauro Chiari (Brescia) 5 febbraio 1946. Musicista • «[...] uno degli artisti italiani più riservati [...] ”La mia generazione ha imparato a suonare nei club. Non c’erano scuole, al massimo qualche metodo abborracciato. Lì dovevamo far ballare la gente. Compravamo i dischi, tiravamo giù le parti, le studiavamo. I testi in inglese, quelli nessuno li ha mai imparati bene. In qualche caso, l’ignoranza ci ha salvato: abbiamo scoperto con anni di ritardo che spesso quei testi erano una schifezza”. La testardaggine, il voler stare coi piedi per terra (’Io sono di paese, mi piace uscire al mattino, comprare il giornale, fare due chiacchiere al bar. Altro che divismo”) sono le doti che hanno ”salvato” Pagani dal destino di tanti come lui. L’aver mollato il successo quando era al massimo: ”Nel ”76, quando con la Premiata Forneria Marconi avevamo tutto. Ho deciso: io mi fermo qui. Mi son chiesto come sarei finito. Ho capito che la mia cultura musicale era limitata. E poi avevo una cotta per una musica tutta diversa: la musica del mondo, la musica del Mediterraneo”. E quindi lo studio, la modestia: ”Ho cominciato a cercare tutti quelli che facevano musica popolare, e a dire: voglio suonare con te”. Il Pagani della collaborazione con Fabrizio De André viene da quella ricerca: ”Ci siamo capiti, ci siamo piaciuti. Secondo me mi ha scelto anche perché, da buon genovese, voleva risparmiare: suonavo come tre musicisti. Lavorare con Fabrizio mi ha permesso di restare vivo, di non accettare compromessi. Con lui ho scritto le mie prime vere canzoni. Con me, lui ha cantato davvero per la prima volta”. Nacque da quell’incontro anche il capolavoro Creuza de ma. Era il 1984. A vent’anni di distanza, Pagani l´ha rifatto con nuovi musicisti e nuovi arrangiamenti: ”Quello era stato un romanzo di avventure, un disco scritto da due che poco viaggiavano. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto continuare quel viaggio, rifare quel giro”. Così, per ricordare, studiare ancora: ”Perché è studiare che mi tiene vivo”» (Fabrizio Ravelli, ”la Repubblica” 3/6/2005).