2 giugno 2005
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Barbieri Fabio
• Nato a Torbole il primo luglio 1947, morto a Padova il primo giugno 2005. Giornalista. «Faceva caldo, ma non come adesso che il clima è impazzito. Era un giorno di giugno del 1984 [...] Fabio Barbieri, appena nominato capo della redazione milanese di ”Repubblica”, entrò nella sua nuova stanza, posò la borsa di pelle accanto alla scrivania, appoggiò la confezione sgualcita di Toscani vicino al portapenne, provò la poltrona da ”capo”, sbirciò con occhio competente la grande stampa settecentesca appesa al muro, poi chiamò Ivana, la segretaria, e le disse che voleva parlare ai colleghi della redazione. Alcuni li conosceva già: gli inviati che si erano occupati dei fatti di terrorismo e del rapimento Dozier, suoi ospiti, a Padova, dove dirigeva il ”Mattino”. Non si trattava solo di sinergie opportunistiche. Bastò poco per capire che Fabio era un fior di professionista esigente, e che alla guida del ”Mattino” aveva dimostrato capacità organizzative e fiuto giornalistico. E poi, non solo era simpatico, e colto senza farlo pesare; aveva il dono della battuta salace, dell’ironìa veneta, anzi, venexiana, sebbene lui fosse nato il primo luglio del 1947 ai piedi delle montagne, su in cima al lago di Garda, in quel di Torbole, dove il vento soffia sempre molto forte e s’impara presto che la vita non è una passeggiata: ”Una buona incudine non teme il martello”, dicono laggiù i vecchi. E Fabio quando era in vena miscelava l’ironìa alla saggezza popolare: ”ti insegnano ad essere concreti, pragmatici”. Quel giorno di giugno dell’84 Fabio fu semplice, rassicurante, a suo modo affettuoso. Disse: ”La mia porta è sempre aperta”. Non promise: ”Sarà”. No, fece capire fin da subito che desiderava condividere con tutti la stessa avventura. Non banalizzò il suo breve discorso con la solita frase ”siamo tutti una squadra”. Gli interessava sapere da ognuno dei suoi redattori cosa volessero fare e cosa in realtà sapessero fare. Li coinvolse e li ”caricò”, lui interista, con quello spirito sportivo che hanno gli allenatori del football più che i team manager senza cuore del terzo millennio. Non era una persona imbalsamata dal ruolo e dalle istituzioni: amava la buona tavola, il buon vino, andare allo stadio o alla Scala, era un abile giocatore di poker, gli piaceva discutere di cinema e di libri, e, compreso in questo suo ruolo di ”capociurma”, aveva deciso di andare all’arrembaggio dei poteri forti che stavano congelando e corrompendo la vita milanese. Lo spiegò chiaramente a bocce ferme, quando ormai non era più il capo della redazione di Milano: ”La Lombardia, la Padania avevano una loro specificità e una loro tradizione. E questa specificità e questa tradizione sono state corrotte dal prevalere di una visione della politica come fine in sé, come potere assoluto, come diritto al’´impunità... certo, ai milanesi, ai lombardi, ma anche ai veneti andava benissimo una classe politica che largheggiava in prebende, finanziamenti, regalìe, sennò non avrebbero continuato a votarla”. Fabio s’illuse di rompere questo cerchio, (’il disegno era staccare la Dc dal Psi e circondare quest’ultimo con le forze sane del Pri e della stragrande maggioranza del Pci”, disse ancora in un’intervista a ”Prima Comunicazione”). Fatto sta che nel maggio del 1988 sentì che la sua avventura milanese era giunta al capolinea. Chiese a Scalfari di andare a New York: un modo ”elegante” di mettere a disposizione il suo mandato. D’altronde aveva sempre sostenuto che ogni 4-5 anni bisognava avere la forza di cambiare. [...] Nel settembre del 1988 si propose per Francoforte: intanto perché parlava tedesco; perché l’economia era uno dei suoi cavalli di battaglia e perché, soprattutto, aveva intuito che di lì a poco ci sarebbero stati grandi cambiamenti geopolitici. Venne accontentato: scoprimmo che Barbieri sapeva sfangarsela eccome nel frullatore della Storia: fu cronista ottimo di eventi epocali come la caduta del muro di Berlino, della guerra del Golfo, di quella in Somalia. Viaggiò nella nuova Europa post-Muro assieme a Guido Vergani, e anche i reportages di un simile virtuoso duo furono esemplari. Pure le incursioni di Fabio nella pancia molle del ”gigante malato d’Europa”, la Germania che avrebbe pagato cara l’annessione della ex-Ddr, ebbero un seguito. Ci regalò infatti un libro sui Padroni di Germania (Rizzoli). Dimostrò il suo talento senza enfasi, con understatement assai raro nel nostro mondo giornalistico. Aveva cominciato giovane a lavorarci: nel 1971, all’Alto Adige, e in questo quotidiano ritornò da direttore per tre anni (1997-2000). [...]» (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 2/6/2005).