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 2005  maggio 27 Venerdì calendario

"I miei giochi (e amori) agli Uffizi". Il Sole 24 Ore 27/05/2005. Certo, sono un privilegiato. C’è chi nasce in famiglie abituate alla villa con piscina, al personale di servizio, alla limousine davanti alla porta; c’è chi fin dall’infanzia è destinato a far parte degli happy fews che fanno abitualmente spese in Rue Rivoli o nella Fifth Avenue

"I miei giochi (e amori) agli Uffizi". Il Sole 24 Ore 27/05/2005. Certo, sono un privilegiato. C’è chi nasce in famiglie abituate alla villa con piscina, al personale di servizio, alla limousine davanti alla porta; c’è chi fin dall’infanzia è destinato a far parte degli happy fews che fanno abitualmente spese in Rue Rivoli o nella Fifth Avenue. Io no. Però abitavo in Oltrarno e andavo a scuola a piedi, ogni mattina, fra i dodici e i diciott’anni: correvano i "poveri-ma-belli" anni Cinquanta ed ero cotto di Alessandra Panaro, che somigliava tanto alla mia Lei. Passavo davanti a Palazzo Pitti, attraversavo il Ponte Vecchio e m’imbucavo nelle strade fra Piazza della Signoria e Piazza Santa Croce. Non c’è pietra, né vicolo, né fontanella, né botteguccia di vinaio o di trippaio che non conosca come le mie tasche in quel paio di magici chilometri. Gli Uffizi sono là, dietro al bronzeo Perseo del Cellini: in una piazza che allora era spesso quasi deserta, salvo d’estate. Il portone del grande museo si poteva varcare con facilità, allora, subito a sinistra dopo una modesta fila di banchi ambulanti di cartoline e souvenir non ancora Made in Hong Kong. Solo il Corridoio Vasariano che collega Palazzo della Signoria a Palazzo Pitti a cavallo del Ponte Vecchio - quello che aveva incantato il Führer in quel radioso e agghiacciante mattino del maggio 1938 ricordato da Eugenio Montale - era ostinatamente chiuso al pubblico. L’ho percorso solo più tardi, in età ormai matura: e mi ha portato fin nel giardino di Boboli, a due passi dalla Grotta dell’Eco ch’era un altro dei rifugi dei miei giochi di ragazzo. Quand’ero adolescente, agli Uffizi ci andavo spesso: il biglietto costava poco e non c’erano le lunghe code dei giapponesi da far smaltire prima di poter entrare. Ero così abituato a riempirmi gli occhi di bellezze, io che passavo quasi ogni pomeriggio nel giardino di Boboli, che tutto m’era familiare e nulla quasi mi lasciava a bocca aperta. Non è che fossi insensibile. Solo che, per me, quella lì era tutta roba mia. Avevo due Grandi Amori. Ce li ho ancora: mi dispiace se parranno banali e scontati, dal momento che si tratta di due capolavori. Nella sala Quattro c’era e c’è il primo. "L’Adorazione dei Magi" di Gentile da Fabriano, dipinta verso il 1423 per i padroni della Firenze di allora, la famiglia Strozzi, da un marchigiano formatosi nella temperie gotico-fiammeggiante del primissimo Quattrocento lombardo: la sua pala è tutto uno splendor d’oro e di gemme, un nitrir di cavalli, un cozzar d’armi niellate e tempestate di pietre preziose. l’Europa dell’Autunno del Medioevo, quella che ho imparato ad amare da Johan Huizinga. Ora che gli ori e gli smalti sono stati preziosamente ravvivati dal restauro, mi sorprendo a rimpiangere la leggera pàtina di polvere incrostata che a quella fiabesca scena forniva una sorta di pudico sipario, la nebbia sottile dei secoli. Ma se uno ama fino a questo punto la favola gotica, come può al tempo stesso lasciarsi rapir dal mito umanistico, quello che si è abituati a considerare il suo diretto antagonista, il suo esatto contrario? Non so rispondere. O meglio: il quarantennio di vita passato tra aule universitarie e sale di biblioteca mi suggerirebbe, certo, dotte e accademiche giustificazioni: ma preferisco lasciar perdere. Perché il secondo dei miei Grandi Amori è, per l’appunto, la "Primavera" che Sandro Botticelli dipinse per il Magnifico Lorenzo. Piuttosto che con gli occhi di Aby Warburg e di Eugenio Garin, che avrei letto e ascoltato di lì a pochi anni, l’adolescente ch’ero allora l’ammirava con quelli del ragazzo che conosceva quella luce, quegli alberi, quell’aria: che c’era vissuto dentro, tra i boschi di Fiesole e i prati di Settignano. Ci vado ancora agli Uffizi, tutte le volte che posso. Ma la "Primavera" restaurata, con i colori ravvivati e inaciditi, mi ha fatto sulle prime l’impressione di un quadro preraffaellita. Esco dalla Galleria e cerco ancora, con gli occhi, l’angolino dove davo appuntamento alla mia Lei che somigliava ad Alessandra Panaro, quelle sere del ’58. Gli Uffizi sono lo spazio della mia recherche du temps perdu. Franco Cardini