Varie, 30 maggio 2005
SETOUCHI
SETOUCHI Harumi Tokushima (Giappone) 15 maggio 1922. Scrittrice • «A Tokyo tutti la conoscono. Parlano di lei con rispetto: ha pubblicato circa trecento libri, fra narrativa e saggistica, e in un Paese in cui la produttività è tutt, è un titolo di merito. [...] A Tokyo tutti la ammirano: ha tradotto, dal giapponese antico al giapponese moderno, il famoso poema Genji Monogatari (in Italia: Storia di Genji il principe splendente, Einaudi), scritto nell’anno Mille dalla divina Murasaki, cortigiana e poetessa, un Dante in kimono che per un migliaio di pagine racconta l’inferno, il paradiso e il purgatorio dell’amore, un Boccaccio femmina [...] Grazie a lei la divina Murasaki ha venduto 270 mila copie in pochi mesi [...] Da tutto il Giappone corrono ad ascoltarla quando predica vicino a Morioka, nel tempio Tendai: la conoscono, l’hanno letta, l’hanno vista spesso in televisione, dove insegna ”a regalare un sorriso, a goderselo, eventualmente, se si è riusciti a imparare come si fa”. considerata un simbolo e un guru, una che ha vissuto [...] Nel 1973 si è fatta ”monaco” buddista. Ha rapato a zero i suoi bellissimi capelli e ha smesso di ”fare sesso” [...] ”[...] A un certo punto ti senti chiamata, tirata per i capelli: Buddha ti prende per mano... non puoi resistere. Io non ho resistito. Tutto qui. [...] faccio una battuta ogni sette minuti. Sono venuti anche dei comici della televisione, dei commedianti in incognito, per imparare la mia tecnica... hanno tutti dell’ansia dentro, vogliono diventare più ricchi, vogliono diventare più bravi. Dopo un’ora che mi ascoltano stanno già meglio. [...] Quando ero più giovane pensavo: vivere vuol dire crescere, migliorare, far fiorire al massimo tutte le possibilità che hai scoperto dentro di te. Credevo nel potere ilimitato del talento. Dopo i 40 anni ho capito che il talento, in fondo, non è poi questa gran cosa. Siamo esseri comunque limitati [...] in Giappone ci sono due tipi di romanzi: quelli commerciali e quelli puri. Io riesco a scrivere sia l’uno che l’altro. Sia la letteratura alta che quella bassa. Perché mi piace scrivere in modo che capiscano tutti. una lingua semplice, piana. E la so usare, ma so usare anche l’altra. Peccato che saper usare due lingue è vietato, qui sono valorizzati solo i puri, quelli amati da un gran numero di lettori sono snobbati dalla critica. [...]» (Lidia Ravera, ”Sette” n. 13/2001).