Panorama, 2/06/2005, 2 giugno 2005
Moggi.Panorama, 2 giugno 2005. Alla faccia dei cecchini che su di lui scrivono biografie noir mai autorizzate e dei nemici che ne parlano come di un vecchio arnese da pensionare
Moggi.Panorama, 2 giugno 2005. Alla faccia dei cecchini che su di lui scrivono biografie noir mai autorizzate e dei nemici che ne parlano come di un vecchio arnese da pensionare. Ora che ha ritrovato la parola, Luciano Moggi, detto Lucky può concedersi il lusso di non dire quel che pensa. E cioè che, alla malora i giornali, Fabio Capello e i suoi proclami, questo scudetto, il sesto da quando è alla Juve, porta tutto per intero il suo nome, la sua faccia e, sia chiaro, il suo torbido genio. Scudetto moggiano come pochi. Inventato quando c’era da inventare, ordito quando si trattava di ordire e taciuto quando c’era da tacere. Quando Umberto Agnelli sul letto di morte convoca Antonio Giraudo e detta in fin di voce il nome di Capello come successore di Marcello Lippi, Moggi è già al telefono con Giorgio Tosatti, amico di Don Fabio, per un rapido sondaggio. C’era feeling con Umberto, molto meno con Giovanni Agnelli, che mal sopportava l’ex ferroviere dai modi grevi e smise di sopportarlo del tutto il giorno in cui annunciò la cessione di Bobo Vieri all’Atletico Madrid, dopo avergli garantito una settimana prima la sua incedibilità. Prima dote di Moggi: saper mentire anche a se stesso. Seconda dote: la flessibilità. Quattro anni prima lui e Capello si erano abbaiati contro di tutto, accuse e sospetti di slealtà sportiva, per questo deferiti alla commissione disciplinare. Moggi che si lamentava degli arbitri, l’altro, allora tecnico romanista, che replicava: "Da quale pulpito! Ci vuole coraggio... ". Eppure, in meno di 24 ore Capello sbaracca la casa romana e scappa in direzione Torino, nelle braccia di Luciano. Il trasloco più veloce della storia, tutto di notte perché, come dice l’Amleto di Jules Laforgue, le spiegazioni ti ammazzano, soprattutto se dall’altra parte ad ascoltarti ci sono un migliaio di ultrà romanisti avvelenati. Preso Capello, Moggi si vernicia di bronzo e ritorna nella tana di Viffa Pacelli, dove lo aspettano l’altro suo nemico storico, il presidente Franco Sensi, e quello strafottente di Franco Baldini, uno di cui diffidare, uno che compra calciatori e cita Molière, per chiudere quella che lui stesso definisce la trattativa più faticosa della sua vita, l’acquisto di Ferreira Emerson. Già intascato Jonathan Zebina a parametro zero, sfilato praticamente gratis Fabio Cannavaro al suo ammiratore Massimo Moratti e preso per due lire anche Zlatan Ibrahimovic dall’Ajax di Amsterdam. Nove mesi dopo, Ibrahimovic vale cinque volte tanto, Capello, Emerson e Cannavaro sono gli artefici dello scudetto. Il silenzio stampa è l’altro capolavoro. La Juve è allo sbando, fuori dalla Champions League, perde i pezzi, la squalifica televisiva di Ibrahimovic, Cannavaro che fa il cazzone con le siringhe al braccio e lui Lucianone, s’inventa il fumus persecutionis. Moggi che lamenta il complotto del Palazzo è il lupo che grida al lupo, Crudelia Demon che si arruola come crocerossina, insomma il mondo capovolto, l’umorismo al suo apice. La Triade silente si fa, se possibile, ancora più lugubre. Moggi, Giraudo e Roberto Bettega ricostruiscono attorno alla squadra un’epica da crociata. Il nemico ovunque, Galliani in testa. Lo scudetto arriva semiclandestino, una notizia da San Siro, la festa che non c’è, blindata, tappi che saltano in sordina, nelle ville private dei giocatori o al Twiga, il locale della Versilia dove la Triade dei Musi lunghi incrocia per un fuggevole convivio quella dei ridanciani, l’amico Flavio Briatore, il tifoso Paolo Brosio, più l’ex Marcello Lippi, socio del Twiga, con Daniela Santanché nella parte di Salomè. Poca roba, poco champagne, qualche passerella, zero spaccato in confronto a quello che avrebbe organizzato Lapo Elkann, con uno smile che ride largo dal Lingotto al Parco Valentino. Se ne fottono delle feste e degli smile Moggi e compari, e ora che continuano a vincere se ne fottono abbastanza anche di Lapo che, nell’attesa di scegliere una volta per sempre se vuol essere il nipote di Agnelli e diventare maestro di style o il figlio di Elkann e invocare lo smile, deve imparare a capire in fretta la differenza che corre tra Bambi e Boris Karloff. Tanto più che, mentre la famiglia Agnelli, Luca di Montezemolo in testa, resta sullo sfondo a meditare, sono i soldi di Saadi Gheddafi, figlio del leader libico che contano sempre di più nella cassaforte di piazza Crimea. I soldi della Tamoil, la benzina sponsor dei Gheddafi (110 milioni in 5 anni), contratto già definito e le voci fin qui smentite di un rimpasto societario che vedrebbe fi giovine Gheddafi pronto a rilevare il 60 per cento delle quote Juve. Garante e fiduciario dell’operazione, proprio Moggi. Cinico può darsi, ma il vecchio Lucky non ci sta a passare per antipatico. Come barzellettiere fa schifo, anche se i suoi amici sono tenuti alla risata. Ma quando commenta ”Il processo di Biscardi” stravaccato a tavola, con l’occhio invariabilmente obliquo, è irresistibile. Di sicuro, è il meno antipatico dei tre. Così antipatici che non si frequentano nemmeno tra loro o almeno lo stretto indispensabile, tra gli uffici di piazza Crimea e lo stadio. Stanno insieme perché vincono e perché li insultano in tutta Italia. Non c’è nulla che affratella più dell’insulto. Per il resto Moggi resta il ragazzo acqua e sapone che viene dalla strada, anzi dai binari. La licenza di terza media gli basta e avanza per vendere biglietti alla stazione di Civitavecchia. Da allora le metafore ferroviarie lo perseguitano. Nome d’arte da giovane: Paletta; oggi: Grande manovratore. Smania di sporcarsi le mani nella fanga della vita, a cominciare dai vagoni di terza classe con cui comincia a girare l’Italia per portare talenti alla corte di Italo Allodi e poi di Giampiero Boniperti: Paolo Rossi, Claudio Gentile, Franco Causio, Gaetano Scirea tra gli altri. Ci sa fare, eccome, Paletta. Vende vetri come diamanti. Uno da cui acquistare una macchina usata con la certezza di averla pagata almeno due volte il suo valore. Ma sono le certezze che contano in questo mondo vago. Ci si fida più di lui alla fine che di uno come Alessandro Del Piero, che ringrazia pubblicamente Capello, dialoga con i passeri e porge l’altra guancia a chi lo schiaffeggia. L’amicizia è tutto per Luciano. L’inseparabile Graziano Galletti, la sua mascotte personale, ex improbabile ciclista, oggi un soave batuffolo di un quintale e passa, che lo segue da trent’anni come un’ombra, sempre seduto in fondo al charter in tutte le trasferte, perché senza di lui la Juve non parte. Nello De Nicola, ex capotifoso della Roma che andava a Trigoria solo per insultarlo, finché un giorno Luciano lo prende da parte e gli parla diritto al cuore. Oggi Nello è responsabile del settore giovanile della Juve. Amici per la pelle Franco Ceravolo, capo degli osservatori, con cui ha condiviso gli anni delle turbolenze giudiziarie al Torino, e Luciano Perinetti, amore a prima vista alla Roma, che si porta dietro o sistema nelle squadre amiche dal 1976. Questo è Lucky. Sono gli amici il suo potere. Dal basso all’alto. Lui non si nega a nessuno. Parla con tutti. Dall’ultimo dirigente della Scafatese a Franco Carraro. In questo è unico. Gli altri vanno a giocare a Monte-Carlo, lui sgobba come un ergastolano. Per parlare con uno come Lele Oriali, dirigente dell’Inter, ci vuole una raccomandazione ministeriale. Lui ha il cellulare sempre acceso. Il suo refrain è "Chiamami domani ...". E tutti lo chiamano domani e poi domani ancora, finché esiste un domani. Una rete di rapporti che diventa rete d’informazioni: il potere assoluto. Moggi è sempre il primo a sapere se un giocatore passa dal Pergocrema alla Solbiatese. Se un allenatore sta per saltare o sta per arrivare. Lo sa anche perché succede spesso che i suoi consigli vengano ascoltati. Lo chiama Claudio Lotito, presidente della Lazio: "Allora, prendo Maifredi?". "No, per carità, lascia stare, prendi Papadopulo", dopo avergli già piazzato come direttore sportivo Gabriele Martino, ex sottopancia del suo amico Lillo Foti, e nel frattempo rifatto il mercato al Siena e proposto alla Roma l’amico Mariano Fabiani del Messina. I poteri forti sono il suo forte. Con Carraro è mutuo soccorso. Con Galliani il patto è di ferro: amici e nemici allo stesso tempo. Alleati contro il resto del mondo, avversari tra loro. Moggi sa come farsi benvolere dai giornalisti, il pensierino affettuoso non manca mai, qualcuno lo colloca in Rai o altrove, le sponde non gli mancano. Con gli arbitri l’afflato è lampante. Lo si deduce dalle statistiche, la Juventus è la squadra più fallosa del campionato, ma ha subito meno ammonizioni, meno espulsioni e meno rigori. Gli arbitri tendono alla paralisi labiale quando si tratta di fischiare contro la Juve. Ma Moggi non c’entra. Del resto Pierluigi Pairetto, designatore arbitrale in coppia con Paolo Bergamo, è amico di Moggi dai tempi in cui lui era già un boss al Torino. Giocavano quasi tutte le sere a scopone con il giudice Giuseppe Marabotto, quello del calcio scommesse, Luciano Nizzola e Giraudo a turno. Tutti tifosi del Toro. Ma il migliore amico di Luciano resta suo figlio, Alessandro. Cuore di papà lo ha sistemato a sua immagine e somiglianza e ora fa il procuratore di successo alla Gea, dove il figlio di Moggi lavora a fianco del figlio di Lippi e della figlia di Cesare Geronzi. Dialoghi surreali. Padre e figlio Moggi che tubano e si fumano addosso alla stessa scrivania, uno di fronte all’altro. "Papi, me lo compri Di Vaio?". Il richiamo del sangue che si fonde a meraviglia con quello della pecunia. Conflitto d’interessi? Concetto troppo labirintico per un’anima semplice come quella di Luciano. La Gomorra del calcio non l’ha inventata lui, l’ha trovata, lui ha solo applicato i suoi metodi appresi in buona parte da quel genio di Italo Allodi, un gentleman forbito rispetto a Moggi, ma pur sempre un pescecane. Moggi lo tradì a Napoli ma poi gli fu vicino nei mesi della malattia, quando Allodi si credeva onnipotente e un giorno si ritrovò steso a terra con le formiche che gli camminavano sul braccio inerte. Un italiano vero, Moggi. Meno decoubertiano di un rottweiler. Gli piace vincere, non importa come. Ma gli piace soprattutto piacere. Lucky, cuore d’oro, memoria di ferro, non dimentica. Nel bene e nel male. Come Al Capone nella scena della mazza da baseball, ti massacra se oltre a fargli lo sgarbo sei anche uno che non conta. "Ho smesso di lavorare dal giorno in cui ho rilasciato un’intervista contro di lui" racconta De Sisti. "è un uomo vendicativo, me l’ha fatta pagare" la più recente accusa di Ermanno Pieroni, ex presidente dell’Ancona, condannato per truffa e bancarotta. Di Zeman si dice che sia finito nei fondali del calcio dopo le accuse di doping alla Juventus. Lui, Moggi, non si perde in perifrasi. Nel suo ufficio campeggia una tela con le immagini di Paulo Sousa, Gianluca Vialli, Roberto Baggio, Fabrizio Ravanelli, Bobo Vieri, Didier Deschamps, tutti via via sbolognati per usura o eccesso di personalità: "Vuoi finire anche tu nel quadro?" domanda ai giocatori che lo molestano. Funziona. Moggi è questo. Abile o fortunato, esce sempre illeso da tutto, patteggiando, schivando, si tratti di calcio scommesse a Roma, camorra, cocaina e maradonate a Napoli, arbitri, puttane e frodi fiscali a Torino, doping alla Juventus, dove non figura nemmeno tra gli indagati. A 68 anni, l’uomo di Monticiano è un peccatore di successo, più vicino all’acquasantiera che all’incarnazione di Lucifero. Devoto di Padre Pio che, in un certo senso, era il Moggi della fede, intesa come mercato delle anime. Il suo addio esemplare? Chiudere un giorno, vincendo, con l’Inter di Moratti. Un miracolo vero, con l’aiuto del santo di Pietrelcina.