21 maggio 2005
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Koff Clea
• Nata a Londra (Gran Bretagna) nel 1972. Antropologa. Nel 1994 si è laureata in antropologia all’Università di Stanford negli Stati Uniti. Nel 1996 compie la prima missione per conto del Tribunale penale internazionale del Ruanda. Nel 2005 pubblica La memoria delle ossa (ed. Héloïse d’Ormesson). «[...] Osservandola, si fa fatica ad immaginare che quelle mani, lunghe e curate, hanno spalato e grattato la terra per esumare centinaia di scheletri e di cadaveri decomposti nei carnai del Ruanda, della Bosnia, della Croazia o del Kosovo. Tutte queste missioni, compiute tra il 1996 e il 2000, questa antropologa medico-legale le ha registrate su un taccuino [...] che le è servito per redigere La memoria delle ossa. Un libro-testimonianza che offre uno sguardo inedito sul ”dopo” di un genocidio atrocemente fulmineo [...] il 7 aprile 1994 quando, all’indomani dell’attentato che costerà la vita al presidente ruandese Juvénal Habyarimana, iniziano i massacri il cui bilancio conterà più di 800 mila vittime, in maggioranza tutsi. In novembre, l’ONU istituisce il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR), che nel gennaio 1996 invierà sul posto per indagare una équipe di esperti in medicina legale. Di questa équipe fa parte Clea Koff. A 23 anni sta per realizzare un ”sogno”, nel bel mezzo di un incubo. [...] ”Andare in Ruanda era il logico seguito dei miei studi di antropologia medico-legale e delle implicazioni di questa disciplina nel campo della giustizia. Realizzavo un sogno che si è consolidato ad ogni successiva missione”. Parla delle sue esperienze in Ruanda, in Bosnia o in Kosovo con la stessa profonda convinzione, la stessa volontà di giustizia che la anima. Lo stesso desiderio di ridare dignità ad un’umanità calpestata che pervade il suo libro avvincente, commovente ed appassionante. [...] ”La tentazione di farsi sommergere dai sentimenti e di vedere l’aspetto affettivo prendere il sopravvento sul lavoro era fortissima, quindi mi sono sempre sforzata di mantenere un punto di vista scientifico, considerando le ossa prima come un puzzle da ricostruire e poi come un individuo. Quando mi trovavo in mezzo a una carneficina e scoprivo centinaia di corpi, mi concentravo su uno solo e mi appoggiavo completamente alla procedura [...] Non dovevo assolutamente mollare, altrimenti rischiavo di essere rimandata a casa, una possibilità che non volevo neanche prendere in considerazione”. Clea Koff dunque ha tenuto duro, grazie alla sua passione per le ossa che risale all’infanzia. Un’infanzia girovaga e formativa (’Mi sento prima di tutto una cittadina del mondo”) che trascorre in Kenya, in Tanzania, terra natale di sua madre, poi in Somalia, seguendo gli spostamenti dei suoi genitori, documentaristi impegnati nella denuncia del colonialismo e di tutte le forme di discriminazione razziale. A 7 anni, sotterra in giardino delle ossa di animali. A 13 anni, seppellisce degli uccellini morti trovati vicino alla sua casa di Washington, per poi dissotterrarli per osservarne la decomposizione. A monte di questa singolare passione c’è anche un amore profondo per la storia e le antiche civiltà, stimolato dal nonno che le regala un libro di archeologia. L’adolescente pensa di avere trovato la sua strada quando, in un sito archeologico greco, capisce che non può limitarsi a riesumare corpi seppelliti ”decentemente”. La lampadina si accenderà alla lettura di Testimoni d’oltretomba di Clyde Snow, il suo ”modello”, che nel 1987 crea il team medico-legale argentino incaricato di identificare le persone scomparse sotto la dittatura. Affascinata dall’applicazione umanitaria dell’antropologia medico-legale, la studentessa di archeologia inizia un master all’università dell’Arizona, dove acquisisce familiarità con i primi cadaveri. Tuttavia niente avrebbe potuto prepararla a quello che vivrà e vedrà vicino ai sopravvissuti del genocidio ruandese. ”Mi è capitato di avere dei dubbi, soprattutto i primi giorni. Poi, alla vista dei carnai, ho capito che il mio disagio non aveva senso”. Clea dovrà comunque imparare a tenere a freno un’immaginazione troppo viva, ad esempio evitando di leggere le deposizioni sui delitti, accogliendo le famiglie, lavorando al loro fianco nei cimiteri, accettando qualche cedimento alla vista dei cosiddetti ”indizi di vita” (collane, vestiti, documenti d’identità) che rivelano il padre, la madre, il nipotino... La vita di prima. Del suo ”dopo”, Clea Koff non parla affatto. Rievoca appena le immagini dei corpi straziati caricati sugli aerei, i film polizieschi che detesta, le prime notti a casa in cui la paura la prendeva. Questione di pudore? ”Insistere sulle mie difficoltà nel riprendere una vita normale mi sembrerebbe ridicolo in confronto al dolore delle vittime e dei sopravvissuti”. [...]» (Christine Rousseau, ”La Stampa” 21/5/2005).