varie, 19 maggio 2005
ALBANI
ALBANI Giorgio Monza 15 giugno 1929. Ciclista. Tra il ”49 e il ”59 (9 anni alla Legnano, 1 alla Molteni) vinse 33 corse, tra cui il Tricolore ”56, 2 Giri dell’Appennino, 7 tappe al Giro: nel ”52 centrò la tappa inaugurale e indossò l’unica maglia rosa. Da d. s ha legato il suo nome alla Molteni di Merckx. «Giro d’Italia 1950. Il primo. Giorgio Albani è in camera con un altro debuttante, Giuseppe ”Pippazza” Minardi. Una sera si guardano allo specchio: ”Sembriamo due pappagalli”. E, lacrime agli occhi, si dicono: ”Forse abbiamo sbagliato mestiere”. Forse. Invece no. [...] Della bici, del ciclismo e del Giro lui sa tutto: storia, scienze e geografia, il padre nostro e l’ave maria, l’inferno e il paradiso. ”La mia fortuna è non averlo mai considerato lavoro, ma sport, professione, privilegio e hobby”. In una sola parola: ”Passione”. Il c’era una volta comincia sei anni prima. l’8 ottobre 1944. Milano, zona Niguarda. Albani, 15 anni, è lì, vestito come se andasse a lavorare: maglietta, pantaloni, calze e scarpe. Perché lui fa il garzone per una ditta di abbigliamento. Però la maglietta è biancazzurra, vagamente simile a quella della Bianchi, i pantaloni corti, le calze bianche e le scarpe da passeggio. La verità è che va a correre. E che corsa: la sua prima corsa. Coppa Isolina Caldirola, tutti insieme, dagli allievi ai dilettanti, 3-400 al via. Lui con una bici sportiva, sostituito il manubrio piatto da turismo con quello all’ingiù da corsa, cambio Simplex a tre rapporti, e i parafanghi per non dare nell’occhio quando esce di casa. Perché i suoi genitori – chiaro – non sono d’accordo. Figlio unico: perché rischiare gomiti, ginocchia e osso del collo per una bicicletta? La prima vera bici da corsa gli arriva dal Pedale Monzese, con il cambio a bacchetta. ”Era la bici di Giuseppe Magni, detto il Magnùn di Lesmo, un bestione: grande e grosso lui, grande e grossa la bici. ”Il telaio è enorme’, mi lamento. ”Ti verrà buona per la crescita", mi rispondono’. Il grande salto a fine 1949. Chi bussa alla porta di casa Albani, a Monza, è Lupo Mascheroni. Nel ciclismo un’autorità, lo conoscono tutti: meccanico factotum della Legnano. ”Andemm”, fa lui. Tutti e due in bici, destinazione via Cico Simonetta, Porta Genova, Milano. Contratto da professionista. Albani: ”Dovevo aspettare Giovanni Tragella. Il direttore sportivo della Bianchi, che fin lì mi assisteva, era al Tour. ”Vai là’, mi dirà poi Tragella: ”Per prendere te, dovrei cacciare uno dei miei’”. Nove anni alla Legnano più uno – l’ultimo, nel 1959 – alla Molteni: 33 vittorie, fra cui sette tappe al Giro, un campionato italiano e due Giri dell’Appennino. E tutti i giorni, dal 1949 al 1956, ad allenarsi con Fiorenzo Magni: ”Appuntamento alle 8 e un quarto nel suo garage di Monza, subito dopo che era finita la baraonda degli operai che andavano in fabbrica. Poi un giro di 155 chilometri: sì di più, mai di meno”. Come corridore ”ero un individualista, in gara risparmiavo, in volata volevo giocare le mie carte”. Nel 1960 sale sull’ammiraglia della Molteni. ”Autorità zero. I corridori mi vedevano ancora come un compagno, non come un direttore sportivo”. Le cose cambiano quando arrivano i neoprofessionisti. Ma che teste. ”Giro d’Italia. Albergo, totale, le spese mi sembrano un po’ alte. ”... e 28 filetti’. ”Ma se sono otto corridori!’. ”Sì – l’impiegato mi fa l’occhiolino – bevono champagne, ma fanno passare le bottiglie come filetti’. Ah. La sera mi apposto fuori dalla camera. Arriva il cameriere. ”Dia pure a me’. Busso. ”Avanti’, esclamano da dentro. Entro. ”Ma guarda che bella sorpresa – squilla Giacomo Fornoni, il più lesto – c’è anche il nostro caro direttore sportivo’”. il periodo più bello: Gianni Motta, Guido De Rosso, Michele Dancelli, Rudi Altig... Poi l’era di Eddy Merckx. ”Era un campione già fatto e affermato. Il mio unico merito è stato creargli intorno l’ambiente giusto”. E ai corridori senza qualità diceva: ”Cerca di trovarti un altro lavoro prima di diventare uno sbandato”. Ma ”il ciclismo è uno sport troppo duro, e lo si capisce da soli quando è il momento di mollare”. Per lui ”il confine era sempre stato lo stipendio di un operaio: finché si guadagnava di più, valeva la pena di pedalare”. Il corridore lo si vede a occhio (’Caviglia stretta, coscia bella, pochi muscoli nelle braccia perché sono un peso da portare in giro”) e sulla bici (’Fausto Coppi, a piedi, sembrava perfino un po’ sgraziato, ma in bici era perfetto, un tutt’uno con il telaio”). La soddisfazione maggiore non è stato il 1974 di Merckx (Giro d’Italia, Giro di Svizzera, Tour de France e Mondiale: tutti vinti), né il Giro 1966 di Motta, né la Milano Sanremo 1970 di Dancelli, ma ”i miei corridori, che mi sono più amici adesso che non prima”. E quando gli chiedono: ”Ma come facevi a sopportarci?”» (Marco Pastonesi, ”La Gazzetta dello Sport” 19/5/2005).