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 2005  maggio 08 Domenica calendario

Allah presta senza interessi. Il Sole 24 Ore 08/05/2005. Citigroup organizza l’emissione di un’obbligazione islamica per 250 milioni di dollari; Hsbc offre prodotti assicurativi islamici

Allah presta senza interessi. Il Sole 24 Ore 08/05/2005. Citigroup organizza l’emissione di un’obbligazione islamica per 250 milioni di dollari; Hsbc offre prodotti assicurativi islamici. In sostanza prodotti finanziari che rispettino i dettami del Corano. Perché? Domanda facile: i risparmi dei potenziali clienti di questi prodotti sono una torta da 250 miliardi di dollari, un mercato da non perdere. Ma cosa sono questi prodotti e cos’è il concetto di economia islamica su cui si basano? Islam and Mammon di Timor Kuran, professore di Economia e diritto e King Faisal Professor in pensiero e cultura islamica alla University of Southern California ci aiuta a capirne origini, caratteristiche, pregi e difetti (Capire l’economia islamica di Emilio Vadalà è anche un agile libretto in italiano sull’economia islamica). La conclusione di Kuran è piuttosto drastica. <Il significato dell’economia islamica non è nella sua sostanza (...) ma soprattutto (...) nel suo contributo all’identificazione di un distinto ordine sociale islamico>. In effetti il concetto di economia islamica è stato sviluppato intorno al 1940 per rafforzare l’identità dei musulmani del sub-continente indiano. Popolarizzato dagli scritti dell’ideologo pakistano Sayid Abul-Ala Mawdudi, questo approccio doveva essere un veicolo per stabilire l’autorità islamica in un campo dove i musulmani stavano gradualmente scivolando sotto l’influenza del l’Occidente. Mawdudi sperava di rafforzare l’autostima e la coesione della comunità islamica in India. Proprio perché nata con obiettivi culturali e politici l’economia islamica non aveva bisogno di soddisfare criteri standard di rigore e coerenza scientifica. Doveva solo differenziarsi dalla tradizione che cercava di sostituire. La rapida diffusione di istituzioni e principi economici islamici in buona parte dei Paesi musulmani dimostra come questo progetto fosse in qualche modo indovinato, per quanto debole da un punto di vista economico. Il pilastro forse meglio conosciuto del progetto è la proibizione di applicare un tasso di interesse. Questo esempio è utile per capire quanto siano poco solide le fondamenta economiche della finanza islamica. La proibizione dell’interesse è spesso erroneamente ricondotta a una prescrizione del Corano. In realtà il Corano prevede soltanto il divieto della riba, una pratica pre-islamica di raddoppiare l’ammontare del debito nel caso non fosse stato onorato in tempo. La riba era dunque una specie di usura, causa di profonde frizioni sociali. Il Corano si limitava a vietare pratiche economiche che destabilizzassero l’ordine sociale, non qualunque tipo di tasso di interesse. Gli economisti islamici, allora, riconducono il divieto all’interesse al divieto di fare profitti senza farsi carico dei rischi di impresa. Secondo questo punto di vista, chi dà capitale a prestito non corre dei rischi in quanto la restituzione del debito è dovuta, indipendentemente dall’andamento dell’attività economica finanziata. Forse coerente da un punto di vista religioso, questa interpretazione si fonda su una concezione errata di rischio. Chi presta dei soldi comunque rischia che questi non gli vengano restituiti (vedi le obbligazioni Parmalat). Per questa ragione nei mercati liberi il tasso di interesse è tanto più elevato quanto più rischiosa l’attività finanziata. In ogni modo, nella pratica le banche islamiche usano strumenti finanziari che prevedono una condivisione dei profitti e delle perdite tra risparmiatori, banche e imprese finanziate e non un tasso di interesse. I risparmiatori hanno diritto a una quota dei profitti della banca in cambio dei depositi e la banca a una quota dei profitti dell’impresa in cambio dei prestiti. Che il finanziatore partecipi direttamente ai profitti (o alle perdite) del finanziato invece di prendere un tasso di interesse fisso può essere una buona idea. Pensate all’importanza di strumenti come il venture capital per finanziare imprese innovative. Secondo Kumar, però, la particolarità delle banche islamiche è fittizia, in sostanza usano strumenti molto simili a quelli tradizionali e applicano un interesse, anche se travestito da qualcos’altro. Ad esempio l’acquisto di un bene, diciamo un computer, da parte di un’impresa, è finanziato attraverso la murabaha: l’impresa compera il computer dalla banca a un prezzo più alto di quello del mercato e lo paga in un secondo tempo. La differenza tra il prezzo della banca e del mercato non è altro che un tasso di interesse. Il problema è che la disponibilità delle banche islamiche a intraprendere operazioni veramente basate sulla ripartizione dei profitti è limitata. Infatti, in Paesi come la Turchia, dove competono con quelle tradizionali, le banche islamiche devono comunque garantire ai propri clienti ritorni equivalenti alla concorrenza. Inoltre, in economie ancora arretrate, è difficile per le banche attuare una strategia di ripartizione dei rischi con i propri clienti: le imprese temono il fisco e sono poco propense a rivelare i propri conti; in assenza di informazioni, le imprese che prevedono di fare molti profitti si fanno finanziare dalle banche tradizionali (con cui non devono dividere i profitti in quanto pagano un interesse) e quelle in difficoltà dalle banche islamiche (con cui possono invece dividere le perdite). Ma allora, perché queste istituzioni sono comunque così diffuse? Kumar dà diverse ragioni, riconducibili essenzialmente al problema dell’identità islamica. Una mi sembra particolarmente interessante. L’economia islamica è stata un utile meccanismo per "spersonalizzare" le transazioni economiche nei Paesi musulmani. Il passaggio fondamentale da un’economia primitiva a una avanzata è la formazione di istituzioni che regolino transazioni impersonali, tra individui che non si conoscono (la Borsa valori). Nelle società primitive gran parte degli scambi avviene tra individui che si conoscono e dove il comportamento deviante è limitato dal controllo e dalle sanzioni sociali. Aderire all’economia islamica e comportarsi di conseguenza è un segnale di condivisione di un’etica di comportamento che consente scambi tra estranei, anche se della stessa religione. Metto i soldi in banca perché è una banca islamica, anche se non conosco il direttore della banca. Da questo punto di vista, a parte casi come le fabbriche iraniane, dove dei comitati vigilano sul comportamento morale di operai e impiegati, l’economia islamica può essere uno strumento utile di diffusione del mercato in economie arretrate, non solo un’affermazione di identità e quindi di diversità. E certamente così sarà finché a conciliare Islam e mercato ci pensano le grandi banche occidentali, come Citigroup e Hsbc. Giorgio Barba Navaretti