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 2005  maggio 17 Martedì calendario

Miller Judith

• New York (Stati Uniti) 1948. Giornalista. «[...] inviata del ”New York Times”, premio Pulitzer per i suoi reportage dal Medio Oriente [...] Dal 26 febbraio del 2004 Judith Miller, piccina, con un caschetto di capelli a frangia e occhiali da sole da timida che celano invece grinta straordinaria, era la spaventapasseri dei media Usa, la peggiore esponente di un mestiere degenerato, completamente svenduto al potere politico. Quel giorno, sulla prestigiosa rivista ”New York Review of Books”, il saggista Michael Massing, nel curriculum una MacArthur fellowship, ”la borsa di studi dei geni” e anni di seminari alla scuola di giornalismo della Columbia University, aveva imputato alla Miller la campagna ”scriteriata” sulle armi di sterminio di massa mai trovate a Saddam Hussein. Erano stati i servizi della Miller, ispirati secondo i suoi critici dal dissidente iracheno Ahmed Chalabi [...] a creare il mito delle armi segrete, poi non corroborato nel dopoguerra. La sentenza, [...] raccolta in un libro, era pesantissima: Judith Miller non aveva mai valutato con oggettività le informazioni e, nell’ansia di realizzare lo scoop della vita, e troppo amica dei consiglieri neoconservatori della Casa Bianca, aveva finito solo per portare acqua al mulino del presidente George W. Bush. Il prezzo pagato per le polemiche è alto. Isolata in redazione, con il critico ufficiale del giornale, l’ombudsman Michael Okrent, che più volte l’ha pizzicata nelle sue pagelle ai giornalisti, la Miller s’è dovuta difendere anche dall’autocritica collettiva che il quotidiano di ”New York” ha avviato, dopo la débâcle dei finti servizi del reporter cialtrone Jayson Blair. In qualche mese di frenetiche flagellazioni sembrava che tra creare un articolo a tavolino, e confidare in fonti riservate non ci fosse più differenza. L’astio contro la guerra travolgeva i giornalisti che non l’avevano condannata. Il tempo passa in fretta, e nel giornalismo Usa gli scandali si fabbricano ormai con la velocità con cui si cambiano le vetrine di moda a Madison Avenue, via i manichini di primavera con il busto esile, su i manichini prosperosi dell’estate. Nella stessa vorticosa primavera del 2003, un oppositore del presidente Bush e della guerra, l’ambasciatore Joseph Wilson, aveva rivelato che tutta la caccia in Africa all’uranio arricchito per la bomba atomica di Saddam era una nuova fola, che nulla aveva di serio, ma che l’amministrazione spingeva – complice una fonte dei servizi italiani – pur di convincere l’opinione pubblica dell’urgenza di invadere l’Iraq. Per vendetta contro il pittoresco Wilson, un alto dirigente dell’amministrazione aveva spifferato che sua moglie, Valerie Plame, è un’agente in servizio alla Cia. Per un funzionario dei servizi avere nome e cognome in prima pagina è la fine della carriera, ma la soffiata è anche un crimine federale punito con la galera. A pubblicare il nome della Plame è Robert Novak, arcigno conservatore [...] che però non viene mai indiziato dal magistrato inquirente, si dice perché gli abbia confessato di nascosto tutto. Il giudice, non contento, decide che a sapere il nome della talpa sono la Miller (che pure mai ha scritto del caso) e un suo collega del settimanale ”Time” Matt Cooper. Chiede il nome, non lo ottiene, e grado di giudizio dopo grado e in una causa che costa milioni di dollari, incastra i due cronisti: se la Corte suprema non garantirà il diritto al segreto professionale, non dichiarare al giudice le fonti, Miller e Cooper andranno in galera. ”Strano destino avere un destino”: la Miller, da ”strega” amica della Casa Bianca e del Pentagono, diventa Giovanna d’Arco a difesa della libertà di informazione. [...] [...] a riprova della sua buona fede ricorda di essere stata l’unica giornalista ”embedded”, in forza al reparto speciale di commandos che doveva trovare le armi di sterminio ”e se sapevo che non c’erano cosa facevo, andavo a cercarle lo stesso? mica sono scema!” [...]» (Gianni Riotta, ”Corriere della Sera” 17/5/2005).