Il Sole 24 Ore 13/05/2005, pag.9 Carlo Ossola, 13 maggio 2005
Perdersi nelle sale minori: così si ”gusta” il Louvre. Il Sole 24 Ore 13/05/2005. Ci sono luoghi e musei fatti per trovarsi, come il Frans Hals Museum di Harlem o lo Jacquemart-André a Parigi, e altri fatti per perdersi: di questi il Louvre è divenuto l’emblema più eloquente, da quando - annessa l’ala del ministero delle Finanze e aggiunta la piramide di vetro di Ieoh Ming Pei al centro della grande corte - esso occupa il cuore della città prolungando lo spazio del visibile sino alla fuga en plein air dei giardini delle Tuileries
Perdersi nelle sale minori: così si ”gusta” il Louvre. Il Sole 24 Ore 13/05/2005. Ci sono luoghi e musei fatti per trovarsi, come il Frans Hals Museum di Harlem o lo Jacquemart-André a Parigi, e altri fatti per perdersi: di questi il Louvre è divenuto l’emblema più eloquente, da quando - annessa l’ala del ministero delle Finanze e aggiunta la piramide di vetro di Ieoh Ming Pei al centro della grande corte - esso occupa il cuore della città prolungando lo spazio del visibile sino alla fuga en plein air dei giardini delle Tuileries. Questo è il primo miracolo del Louvre: l’arte ha annesso gli emblemi del potere, sin da quando, nel 1882, integrò quel che restava del palazzo reale delle Tuileries (sono gli attuali pavillons de Flore et de Marsan), per finire - alla fine del secolo successivo - con l’occupare la roccaforte delle Finanze, trasferita ora a Bercy. Onore dunque a quella città che consacra il proprio centro e la propria identità pubblica all’arte. Pierre Rosenberg, che è stato l’anima e l’artefice del "grand Louvre", mi faceva osservare, accompagnandomi amabilmente tra le nuove additiones - tra la statuaria antica e i raffinati sapori della vecchia Francia - che il Louvre concentra in sé la memoria delle civiltà e offre il nostro miglior presente: dalle sale d’esposizione all’Auditorium, dalle conferenze alla libreria, ai ristoranti, il visitatore può trascorrere la "giornata delle Muse" tra quadri, musica, storia. I milioni di visitatori vivono i millenni in un giorno: e questa memoria vivente è la cittadella della reconnaissance: gratitudine alla creazione umana e riconoscimento di sé. Il ricevere moltissimo per così poca spesa crea al visitatore spaesamento: ci si sente smarriti e presto sgomenti. E alla fine non si ricorda quasi più nulla: ammirazione e frustrazione s’intrecciano e il loro nodo ci fa prigionieri. Non ci sono antidoti, e questa vertigine soffocante ha un unico rimedio, che mi insegnò William Melczer, studioso dell’anima nella vecchia Mittel Europa. Visitando insieme il Musée Royal des Beaux-Arts di Bruxelles, si fermò a una delle prime sale, ed io andai continuando; a fine visita, dopo un paio d’ore, lo ritrovai sempre lì davanti al suo Van der Weyden. Al mio stupore, egli replicò che un museo è una raccolta di mondi, e sono fatti perché ciascuno scelga ove far dimora: e quello era il suo. Se l’apologo vale, il mio Louvre, dopo tanti ritorni, dopo visite corsare e lunghe soste, in fondo si riduce a un solo quadro, che così Ungaretti descrive: <La Merlettaia è china sul suo lavoro. sguardo che si concentra, è assenza da tutto il rimanente che non sia quel lavoro, quel moto di dita che i fili annodano in trame leggiadre. Dita e sguardo non cesseranno mai di muoversi, di quel loro moto che non si muove fermo per sempre. L’idea dell’infinità, d’una familiarità con il silenzio, solita, indissolubile e infrangibile; l’idea d’un’esistenza immutabilmente, felicemente quotidiana, semplicemente semplice; l’idea d’una solitudine tutta sola, e tutto il resto muto; questa è l’idea> (Jan Vermeer,1967). Un museo deve servire a questo appunto: restituirci al nostro quotidiano, liberato dal peso della ripetizione; al nostro quotidiano concentrato nel gesto, nel filo, nel tratto che ci è più caro: sì da farlo idea, idea di tutto ciò che in esso si raccoglie di noi, inespresso. E mentre si assiepa intorno alla Gioconda una folla che si fotografa accanto, che fissa a terra lo sguardo (non al quadro) per concentrarsi sulle parole dell’audioguida, mentre fiumi di scolari, babeli di lingue rendono impossibile la meditazione, e a ogni quadro s’interpone un ciuffo o una vistosa parrucca, un cappellino inglese o una bandierina di capocordata, non disperatevi (è il sentimento più diffuso uscendo dal Louvre), svoltate nelle gallerie e nelle sale più neglette - è così "obbligato" il percorso delle guide che crescono, più aumenta il pubblico, le sale deserte - e forse vi capiterà in dono un altro silenzio, il quasi morandiano "Piatto di cialde" di Baugin. Uscirete rasserenati, con «un’idea d’infinita tenerezza. Con appena un soffio di malinconia» (Giuseppe Ungaretti). Carlo Ossola.