Varie, 15 maggio 2005
AGAMBEN Giorgio
AGAMBEN Giorgio Roma 22 aprile 1942. Filosofo • «[...] uno dei saggisti e filosofi più acuti in circolazione. [...] “Un filosofo che amo ha scritto una volta che l’elemento propriamente filosofico in ogni opera, che sia opera di pensiero, di letteratura o di arte, è quello che è rimasto in qualche modo non detto e contiene per questo una possibilità di sviluppo. La filosofia non ha in questo senso un ambito proprio, ma lavora di volta in volta su quel che rimane non detto in ambiti e discipline che non le appartengono. A volte ho l’impressione che questo principio definisca il mio metodo di lavoro. E non soltanto rispetto agli autori che amo, di cui cerco di continuare il lavoro, ma anche, in modo più o meno inconsapevole, rispetto a me stesso. Come se ogni libro già scritto portasse con sé qualcosa che è rimasto involuto e non detto che esige di essere ripreso e sviluppato. [...]” Tra i suoi autori con cui ha vissuto in una specie di simbiosi ci sono Walter Benjamin e Martin Heidegger. A cosa si deve questa predilezione? “Ho scoperto Benjamin e Heidegger all´inizio degli anni sessanta più o meno contemporaneamente, e questi autori sono stati per me a un certo punto entrambi determinanti. [...] In un certo senso si vive sempre insieme agli autori che si amano. E con Heidegger un incontro personale, estremamente intenso, c’è stato ai seminari di Le Thor nel 1966 e nel 1968. Ma anche rispetto a Benjamin, ricordo ancora l’emozione e il tremore quando, a Roma in casa di Herbert Blumenthal e poi alla Biblioteca nazionale di Parigi, mi è capitato di scoprire suoi manoscritti inediti. Forse Benjamin è stato il contravveleno che mi ha salvato da Heidegger e Heidegger, in qualche modo, ciò che mi ha impedito di perdermi in Benjamin [...] Alexandre Kojève diceva che ‘la filosofia è quel discorso che può parlare di qualsiasi cosa a condizione che parli anche del fatto che ne sta parlando”. Non si tratta di una battuta. Filosofia e esperienza del linguaggio sono inseparabili. Forse ciò che chiamiamo pensiero non è che un esperimento molto speciale condotto sul linguaggio che non concerne ciò che ci diciamo attraverso il linguaggio, ma il fatto stesso che parliamo, che vi sia il linguaggio. Ma rischiarsi in questo esperimento, provarsi a dire la lingua stessa, significa rischiare di restare senza parole di fronte al linguaggio. Ma questa è una condizione molto interessante, che i poeti e i mistici conoscono bene”. Nei suoi saggi si incontra l’espressione “scienza generale dell’umano”, una sorta di progetto avviato con i suoi studi su Warburg e Benveniste e poi interrotto. Perché? “All’inizio degli anni settanta, la scoperta di Aby Warburg e di Emile Benveniste mi sembrò aprire una nuova strada. A quell’epoca leggevo una quantità sterminata di libri di antropologia e di linguistica. Mi pareva che Benveniste per la linguistica e Warburg per l’antropologia avessero condotto le scienze umane a urtarsi contro il loro limite, al di là del quale non potevano procedere senza chiamare in causa anche la filosofia. Il progetto di una scienza generale dell’umano e, piuttosto di una ‘scienza senza nome’ nasce da questa esperienza. Ed è dalle discussioni con Italo Calvino e Claudio Rugafiori intorno a questa idea che nacque anche il progetto comune di una rivista che non vide mai la luce. Il fatto è che già alla fine degli anni Settanta cominciò a diventare chiaro che la crisi delle scienze umane andava di pari passo a una trasformazione decisiva della situazione politica, che è quella in cui ancora oggi ci troviamo. I progetti filosofici e scientifici non sono mai indipendenti da una determinata intensità politica e, senza di essa, restano inintelligibili. Alla fine di Le parole e le cose, Foucault evoca l’immagine di un volto di sabbia semicancellato che l’onda delle scienze umane lascia sul bagnasciuga della storia. Il progetto di una ‘scienza senza nome’ era legato a questo volto illeggibile e venne meno con esso. Ma a volte mi pare che le ricerche su un’archeologia della politica che ho cominciato negli anni novanta riprendano, anche se in maniera molto diversa, quel progetto”. Circola nei suoi saggi l´idea che il meccanismo del fondamento sia entrato in una crisi duratura. Che cosa è accaduto da rendere, dopo Hegel, irreversibile questa crisi? “A che cosa serve il ‘meccanismo del fondamento’[...] In Aristotele che è forse il primo a formularlo, è chiaro: si tratta di trasformare la domanda insipida ‘che cos’è qualcosa’ in quella, molto più interessante, ‘attraverso che cosa, su quale fondamento un certo essere è detto avere questa o quella proprietà o essenza?’. [...]” [...]» (Antonio Gnoli, “la Repubblica” 15/5/2005).