Carlo Petrini, La Stampa, 10/05/2005, 10 maggio 2005
Ducasse, La Stampa, 10 maggio 2005 NeL mondo della cucina in questo momento storico si parla e si dibatte soprattutto della tecnica
Ducasse, La Stampa, 10 maggio 2005 NeL mondo della cucina in questo momento storico si parla e si dibatte soprattutto della tecnica. Le manifestazioni internazionali che radunano i grandi chef, come Lo Mejor de la Gastronomia di San Sebastian, sono tutte un arrovellarsi su ricette molto innovative, un continuo racconto di procedimenti originali e molto complicati. Ne parliamo con Alain Ducasse, uno degli chef più famosi del mondo. Gli chef sembrano tutti alla ricerca dell’invenzione del secolo, ma pare che ci si sia dimenticati dell’importanza della materia prima, delle sue qualità, della sua provenienza, dei metodi per ottenerla, dell’umanità che la produce. "Nella metà degli anni Settanta si impose la nouvelle cuisine, che era l’espressione massima della creazione personale dello chef, in cui il prodotto perdeva importanza rispetto alla tecnica. Intorno al 1985 ci si incominciò a interessare nuovamente alla materia prima e ora, dopo il duemila, da tre o quattro anni si parla di nuovo di creatività a della mano personale dello chef. Questa alternanza di correnti è il risultato del pensiero dominato dall’influenza dei media, un modello di pensiero unico che oggi ci fa credere che conti solo la creazione e non il prodotto. Forse tra qualche anno ci sarà di nuovo un cambio di tendenza: in fondo si tratta di corsi e ricorsi storici. Per quanto riguarda me e i miei collaboratori però, abbiamo sempre focalizzato il nostro lavoro su un’estrema attenzione ai prodotti e abbiamo inziato a farlo in controtendenza nel 1975, in piena nouvelle cuisine. La tecnologia è importante certo, non diciamo mica il contrario, ma c’è il pericolo che prenda il sopravvento sul cuoco e che egli sia vittima di una standardizzazione. Si può parlare della temperatura e delle tecniche perfette per cuocere un pollo, sono importanti, ma se questo diventa l’unico discorso è pericoloso, perché prima bisogna chiedersi che ha mangiato il pollo e se ha fatto sport tutte le mattine ride ndr. Non è com’è cucinato che lo rende buono, è che vita ha fatto. Solo in base a questo fattore ”esistenziale” può diventare un prodotto straordinario. A San Sebastian i cuochi hanno parlato per ore su come cuocere un pollo e nessuno ha parlato del pollo". L’idea di fondo di Terra Madre è che la gastronomia è una scienza complessa e multidisciplinare, che riguarda cucina e agricoltura, antropologia ed economia, storia e medicina: tu, nelle vesti di chef, di esperto di cucina, che cosa pensi delle questioni legate all’agricoltura e al mondo agricolo in generale? "L’unica cosa che deve interessare lo chef è la diversità: scegliere i prodotti della natura è la cosa determinante. La tecnologia è utile, ma non dobbiamo essere noi gli asserviti dalla tecnologia. Essa è un servizio, che serve a rendere ancora più perfetto, a controllare, a redere più comodo o pulito. La biodiversità è fondamentale; la tecnologia viene dopo. Ma la diversità in generale è fondamentale: per esempio smettiamola di dire che gli italiani sono i tradizionalisti e gli spagnoli sono i nuovi creativi. Si procede sempre per semplificazioni contrapposte, gli uni contro gli altri, e mai gli uni insieme agli altri. Valorizziamo invece la cultura e la conoscenza di ciascuno, coltiviamo le differenze. Ogni contadino fa delle cose diverse dall’altro, cerca di fare meglio del vicino e non di somigliargli. Bisogna accentuare le differenze se vogliamo che tutto funzioni meglio: in agricoltura, in cucina, nella vita". Viste tali premesse però, a questo punto si rende necessaria una domanda molto personale, perché tu hai differenti ristoranti in diverse parti del mondo. Monte Carlo, Parigi, New York: sei uno chef globale, sei diventato come un marchio riconoscibile in tutto il mondo. Come riesci a conciliare questo tua potente immagine con il lavoro concreto in diversi luoghi del pianeta? Qual è ad esempio il tuo rapporto con i produttori: il tuo staff li ricerca direttamente, avete degli intermediatori, non cadi nella tentazione di standardizzare la cucina in tutte le tue diverse attività ristorative? "Noi cerchiamo sempre di andare all’origine del prodotto, scandagliamo le campagne insistentemente e abbiamo un rapporto quasi sempre diretto con la produzione nei diversi luoghi dove operiamo. Prima cerchiamo i prodotti, li portiamo in cucina e, se vanno bene, inziamo a elaborarli e a combinarli. Cerchiamo di conoscere la storia dei prodotti perché non vi si può prescindere: è cartesiano, ed è questo ciò che fa la differenza in una grande cucina. La materia prima dev’essere vicino ai fornelli: i contadini, i pescatori, gli artigiani di tutto il mondo sanno fare cose incredibili e grazie a loro noi chef siamo in grado di applicare la nostra arte. un po’ come la storia dell’arte e dell’arte applicata: la fotografia è un’arte applicata, gli chef fanno dell’artigianato applicato. Senza la materia prima non possiamo fare niente, se metti de la merde a fare un’emulsione, con la tecnica migliore otterrai semplicemente una perfetta emulsione di merde!" Ma come applichi questa filosofia in tutti i tuoi risotranti e qual è il luogo dove hai trovato più difficoltà a trovare i prodotti giusti? "Lo chef deve portare questo sentimento e questo messaggio dappertutto: applicarlo all’artigianato del luogo, cercare i polli migliori, le anatre migliori, le Saint Jacques migliori. Ogni luogo ha i suoi prodotti ed ecco che allora molte ricette non possono essere omologabili: bisogna proporre una ristorazione in armonia con il luogo dove si trova il ristorante, anche per semplice il rispetto dei clienti che, se camminano su un marciapiede di New York e passano davanti a un ristorante, in quel posto si aspetteranno della cucina fatta con prodotti americani. Il luogo dove ho trovato difficoltà ad applicare la mia filosofia sono proprio stati gli Usa. Un amico giornalista ha preso ogni tipo di mezzo di trasporto per trovarmi i prodotti che cercavo. Ha percorso in totale 125 mila miglia e i risultati di questa ricerca per il ristorante di New York li ho pubblicati in un libro: Harvesting the Excellence. stato faticoso, ma sono molto soddisfatto". Concorderai con me che è assurdo far viaggiare i prodotti da una parte all’altra del globo. una pratica insostenibile perché l’utilizzo inutile dei mezzi di trasporto è altamente inquinante, mentre si perpetrano ingiustizie economiche nei confronti dei produttori più poveri. "Quando a Parigi mangio una triglia e la pago molto, troppo cara, certamente è arrivata da me in aereo con provenienza Dakar. Mentre fa tappa a Concarneau è già troppo costosa. Bisogna prima guardare che cosa c’è nel proprio perimetro geografico, del resto è più semplice. I prodotti importati, oltre a essere meno sostenibili dal punto di vista ambientale, non sono economici. E poi sono "affaticati": non sono necessariamente più buoni, anzi quasi sempre è il contrario". In un contesto così globale, dove predominano le contraddizioni e l’assurdo dell’agro-industria, non solo i prodotti entrano in crisi, ma anche i saperi tradizionali. La nostra vita quotidiana ha chiuso la cucina familiare nell’omologazione dei prodotti precotti e dei marchi multinazionali; siamo arrivati al punto che le origini gastronomiche, la cultura identitaria oggi la si può trovare soltanto al ristorante, mentre a casa si mangia ”globale”. Non pensi che oggi gli chef si ritrovino anche caricati di una nuova responsabilità, in quanto rischiano di rimanere gli ultimi detentori del sapere cucinario?. "Io e la mia equipe ora stiamo lavorando su cosa si può cucinare al meglio con un euro e cinquanta di spesa. Abbiamo una scuola e abbiamo messo a disposizione le nostre conoscenze per dimostrare che un cuoco può fare anche la ”cucina della collettività”, con poco a disposizione. Un cuoco è in grado di preparare un buon piatto da un prodotto non molto buono: un tacchino industriale ben cotto, con una buona riduzione e con dei legumi cucinati a dovere è già diverso: il cuoco può aggiungerci il cuore e la conoscenza. Può anche insegnare a farlo, semplicemente trasferendo il suo amore per il prodotto, perché bisogna che la gente ritrovi il piacere di andare al mercato e di educarsi alla conoscenza delle materie prime. E poi, anche nella grande distribuzione al giorno d’oggi ci sono dei prodotti intelligenti, un minimo di qualità. Il secolo scorso ha visto il predominio delle schifezze, di tutte le sperimentazioni possibili e immaginabili, che ci hanno portato a mucca pazza e agli altri scandali alimentari. La sensibilità per fortuna è un po’ cambiata adesso e bisogna porre le condizioni perché a casa la gente reimpari a mangiare prodotti buoni, a nutrirsi correttamente e in maniera semplice, senza spendere dei capitali o ricercare l’eccellenza a tutti costi. C’è una qualità media, quotidiana, che bisogna saper trovare". Sul discorso del prezzo bisogna fare attenzione però: è cercando ossessivamente il prezzo basso che ci siamo ridotti alla mucca pazza. Forse è meglio ridurre la quantità di ciò che consuimiamo e puntare sul buono pagandolo il giusto, per salvare i mercati dei piccoli contadini e artigiani che rappresentano le categorie più in crisi. In Italia abbiamo ancora molti di questi produttori straordinari, ma se non iniziamo a pagarli sufficientemente spariranno presto. "In Italia però è straordinario: ci sono ancora delle donne che hanno salvato la memoria e la sensibilità delle cucine regionali; al mercato ci sono i prodotti locali e i piccoli contadini. E c’è anche della gente disposta a pagare di più per un grande prodotto. Perché in Italia è ancora imporante il piacere. Il prezzo è importante, è vero, e bisogna che i contadini si guadagnino onorabilmente da vivere: dietro un litro di latte ci sono degli animali, degli ettari di terra, il lavoro di uno o più uomini: come fa a essere meno caro di un litro d’acqua in bottiglia? allucinante, scandaloso". Beh, questa è musica per chi organizza Terra Madre. Tu che ne pensi dell’evento a cui parteciperai nel 2006? un’idea straordinaria quella di fare conoscere, permettere lo scambio, confederare gli uomini e le donne del pianeta che hanno l’amore per il buono e la passione del buono. Quelli che hanno preservato la biodiversità e le differenze. Dobbiamo coltivare e preservare le differenze sul pianeta; bisogna vivere in questo modo per non farsi influenzare dal pensiero unico: stare con gli occhi aperti, guardare agli altri e cercare di capire chi sono, magari imparandone i valori. Bisogna guardarsi negli occhi e capirsi. Ieri per esempio ero tra le montagne vicino a Bilbao e c’erano olivi e vigneti ovunque. Ho fatto un pranzo in un piccolo ristorante tradizionale, dove tutto mi è stato cucinato con la tecnica dell’affumicatura in un camino. Ho mangiato in modo eccezioanle a base di savoir faire del luogo e mi è subito venuta voglia di imparare quella tecnica così semplice e antica." Qual è la tua definizione di gastronomia? "Guardare a un prodotto e cercare di rispettarne il sapore originale, il sapore di chi l’ha coltivato, allevato o pensato, utilizzando la giusta preparazione, la giusta cottura e il giusto accompagnamento. Il messaggio della gastronomia deve essere chiaro a tutti e restare permeabile per poter apprezzare ciò che la natura ha donato. il rispetto del prodotto. L’influenza della tecnologia e dei media ci privano di questa gioia perché alla fine riducono tutto alla semplice questione ludica: l’unica cosa che ti chiedono i giornalisti gastronomici sono buoni indirizzi e ricette. Noi cuochi lavoriamo sulle fonti e i giornalisti vogliono solo l’effetto. Analizzando le fonti invece si capisce il professionismo, il rigore, l’amore. Ma giornalisti vogliono solo wow! Hanno bisogno di stupirsi, ma ogni piatto ha una storia che inizia molto prima dalla sua ricetta". Carlo Petrini