La Repubblica 08/05/2005, pag.34-35 Stefano Malatesta, 8 maggio 2005
Malatesta sui fari Stevenson, cercando i novanta fari di famiglia. La Repubblica 08/05/2005. Arbroath, sulla costa nord-est della Scozia, sopra Edimburgo, è uno di quei piccoli porti che nelle fotografie appaiono incantevoli, se amate la wilderness e il mare tempestoso d´inverno, con le onde bianche di schiuma anche al largo
Malatesta sui fari Stevenson, cercando i novanta fari di famiglia. La Repubblica 08/05/2005. Arbroath, sulla costa nord-est della Scozia, sopra Edimburgo, è uno di quei piccoli porti che nelle fotografie appaiono incantevoli, se amate la wilderness e il mare tempestoso d´inverno, con le onde bianche di schiuma anche al largo. Ci sono mari peggiori: lo stretto di Drake, ad esempio, sotto Cape de Hornos; e poi quel tratto dell´Atlantico del Sud chiamato "The roaring forties", con immense onde che si vanno a schiacciare sulle spiagge affollate di pinguini; o, per rimanere nei dintorni della Scozia, il Pentland Firth, lo stretto di sette miglia che mette in comunicazione il mare del Nord con l´Atlantico, forse il passaggio più detestato dai marinai europei dell´epoca della vela. Ma anche sulla costa orientale scozzese i venti, che si trasformano in raffiche senza una ragione apparente, riuscivano a spingere contro le rocce affilate i battelli minori. Navigare da queste parti significava rischiare due volte, a causa della natura e degli umani. Le popolazioni rivierasche, come venivano chiamate nei libri di geografia, quattro straccioni affamati che guatavano l´orizzonte sperando che qualche nave in difficoltà naufragasse nelle loro terre, campavano con il diritto di preda. E non conoscevano pietà davanti ai corpi distesi sulla sabbia o che galleggiavano nell´acqua: vivi o morti venivano subito eliminati per non richiamare l´attenzione. Spesso erano loro a provocare i disastri, attirando di notte le barche condotte da piloti inesperti verso i fondali più pericolosi della zona. Quando si cominciò a parlare di fari, una deputazione ebbe la faccia tosta di andare a Edimburgo a protestare, come dissero, contro l´iniquo progetto. Nel dicembre 1799 una tempesta che ricordava, per la sua forza distruttiva, quella che aveva annientato duecento anni prima l´Invincibile Armada, spedì sugli scogli settanta navi, compresa la nave da guerra "HMS York" con sessantaquattro cannoni e quattrocentonovantuno uomini. Questa volta anche il Parlamento inglese, che normalmente se ne fotteva di quello che poteva accadere oltre il confine con la Scozia, sentì il dovere di fare qualcosa. E in poco tempo, anche se il via ai lavori arriverà soltanto nel 1806, si decise di costruire un grande faro a quindici miglia da Arbroath. Sarebbe stato il primo Pillar Rock di Scozia, ossia il primo faro a colonna: un grande pilone alto trentasei metri e poggiato su una scheggia di roccia che si innalzava per oltre ottocento metri dal fondale. Per costruirlo venne dato l´incarico al Northener Lighthouse Board, l´ente responsabile dei fari, fondato una quindicina d´anni prima. Fu un´impresa abbastanza straordinaria perché si doveva lavorare con una marea che provocava un dislivello di sei metri ogni sei ore. Poco più di quattro anni più tardi, il primo febbraio del 1811, ventiquattro lampade argand si accesero e il Pillar Rock cominciò la sua carriera di faro più famoso della Scozia. Nelle belle giornate chi si mettesse a guardare verso l´orizzonte dal lungomare di Arbroath noterebbe in lontananza come un ago tremolante e luccicante che sembra ballare sopra il mare. Chi l´aveva progettato portava un nome non particolarmente famoso allora: Robert Stevenson. Il Northener Lighthouse Board, con la sua sigla altisonante, era solo una facciata a copertura, nemmeno tanto ricercata, di un gruppo di affaristi che faceva pagare una sorta di pedaggio ad ogni nave per avere utilizzato o beneficiato in qualche modo della sua luce. Alla fine del Settecento la Gran Bretagna era ancora, e lo sarà per molto tempo, uno Stato privato come fini e come mezzi e la detestata mano pubblica veniva ammessa solo in caso di estrema necessità. I membri dell´Alta Camera dei Lord conservavano i loro posti per diritto ereditario, numerosi boroughs appartenevano a ricchi nobili di campagna e nessuno voleva la polizia, per paura che gli agenti andassero a ficcanasare negli affari altrui come facevano in Francia. Il primo nucleo di poliziotti, tutti disarmati, venne istituito da Robert Pil, all´inizio del secolo diciannovesimo, da cui il soprannome di bobbies. Circa novanta fari vennero costruiti su ordine dell´ente Northener in un arco di circa sei generazioni: fari costruiti a pelo dell´acqua; o in cima a roccioni protesi nell´aria su isolotti che chiudevano una baia; o ai confini più remoti della Scozia, su isole di cui nessuno conosceva il nome. Non esisteva un modello unico al quale ispirarsi, esistevano esigenze di illuminazione e anche di semplice avviso. Il faro di Chanonry Point si trova alla fine di un campo di golf; il Cromarti Lighthouse segnala l´ingresso di un fiordo una volta frequentato dai pirati e ora dagli studenti della Aberdeen University per studiare i delfini; in quanto al faro chiamato Rattrai Hed, che ha una portata di ventiquattro miglia, ci sono voluti quarantatrè anni di carteggio tra l´Inghilterra e la Scozia solo per ottenere il permesso di costruzione. Se consentite un parere personale, il più bello dal punto di vista paesaggistico è l´Ismore, il cui guardiano si chiamava Robert Selkirk, discendente da quel Selkirk che è stato il modello per il Robinson Crusoe. Questa classica saga scozzese tenne impegnati gli Stevenson per oltre centocinquant´anni: l´ultimo faro costruito dalla pregiata ditta risale a prima della seconda guerra mondiale. Tuttavia da questo monopolio la famiglia non trasse tutti i possibili vantaggi perché non riuscì ad avere nemmeno un brevetto sulle innovazioni tecniche impiegate di volta in volta. Dal 1805 al 1842 il più prolifico e capace ingegnere dell´azienda era stato Robert Stevenson, autore di progetti legati ai quindici fari maggiori e ad altri minori e tecnico discretamente geniale. Fu lui che fece realizzare il mortaio di Manby, un´arma da fuoco che sparava un proiettile a cui era stata legata una lunghissima cima, invenzione rivelatasi utilissima per recuperare i naufraghi. Infatti nei quarant´anni successivi oltre mille persone furono salvate. Robert Stevenson morì nel 1850, lo stesso anno in cui nasceva il nipote Robert Louis Stevenson, l´autore de L´isola del tesoro. Quel giovanotto dai polmoni delicati, che vestiva sempre stringendosi alla vita una fusciacca e che scriveva in una prosa così limpida e apparentemente così naturale, fu l´unico tra i componenti del clan, attraverso cinque o sei generazioni, a scampare alle corvée delle misurazioni delle maree, dei lavori nei fondali e di tutto quanto riguardasse la costruzione dei fari. Ma non si possono mollare impunemente i luoghi dell´infanzia, qualsiasi cosa quest´infanzia sia stata. E quella dello scrittore non dev´essere stata pessima, con l´eccezione della malattia. Tusitala, il raccontatore, l´affabulatore, come l´avevano chiamato gli atletici abitanti di Samoa che andavano ad ascoltarlo quasi ogni pomeriggio nella sua casa di Vailima, i "Cinque ruscelli", non fu mai tanto scozzese d´anima e di memoria come quando stava nelle isole incantate del sud Pacifico. Le nuotate lungo la riva e le passeggiate sotto le palme da cocco, anche la presenza a Vailima di una bellissima samoana che lasciava cadere a ogni passo le garze trasparenti che l´avvolgevano non cancellavano le memorie e il senso dell´appartenenza a un paese che non voleva essere solo un´appendice settentrionale dell´Inghilterra. La romantica Scozia era così differente dall´Inghilterra, troppo appiattita nel suo cinico buonsenso, e la ferita di Culloden, dove gli scozzesi avevano perso la libertà, era ancora aperta. E anche quel senso del gotico entro il quale possiamo comprendere il tema del demoniaco e della duplicità umana, di cui tratta Lo strano caso del Dottor Jeckill e Mr Hyde, si era fatto più forte e adoperato con maestria finirà negli ultimi lavori, ad esempio Il signore di Ballantrae. Non so se ricordate l´inizio dell´Isola del tesoro. Jim Hawkins, il giovane protagonista, aiuta la madre a gestire una locanda che è assolutamente identica a un faro. Si chiama la "Locanda dell´ammiraglio Benbow", appollaiata sopra un promontorio e con ottima vista sulla spiaggia. Nella locanda si è rifugiato un vecchio filibustiere che sta aspettando qualcuno che alla fine lo ucciderà. E Jim comincia ad avere gli incubi, con Stevenson che sta preparando l´atmosfera: "Quando il vento scuoteva i quattro canti della casa e i cavalloni infuriati mugghiavano contro la baia...". La intelligente e premurosa Fanny Osborne - moglie amante compagna madre e infermiera - aveva capito benissimo che Robert Louis aveva la psicologia di un liceale molto intelligente e brillante e che sapeva di esserlo. Ma come scrittore Stevenson era tutt´altro che un liceale: un artista estremamente consapevole, un artigiano abilissimo che sapeva come maneggiare la prosa e come distillare un´opera limpida dalla grossolanità dei materiali. Quando morì, Henry James scrisse il commento più commovente: "Ha illuminato un´intera parte del globo, ed era lui stesso un´intera provincia della nostra immaginazione. Noi ci sentiamo più soli e più deboli senza di lui". E se non volete credere a James, credete a un signore argentino di gusti antiquati che si chiamava Borges e che diceva spesso. "Mi piacciono le illustrazioni del Settecento, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson". Qualche volta gli dei superni, che guardano agli uomini in basso con invidia e sono la causa delle nostre disgrazie, hanno anche loro delle pause e lasciano che le cose vadano come devono andare e cioè per il meglio. Quando un amico le ha raccontato la saga stevensoniana dei fari, Cristina Taverna, editore del Carnet de voyage, la collana dove è stato pubblicato questo libro, si è entusiasmata quasi fuori misura per due ragioni: il progetto di disegnare tutti i fari era bellissimo. Inoltre lei conosceva perfettamente uno dei pochi artisti in grado di farlo. Anni prima aveva pubblicato un altro carnet de voyage di un artista che aveva attraversato le Americhe, per scendere lungo quelle immense spiagge argentine e cilene dove l´oceano lasciava le carcasse di navi e di grandi cetacei. Per quanto disabitati e solitari e remoti fossero quei luoghi, c´era sempre qualcuno che andava a prendere questi resti commoventi e bellissimi per adornare le facciate delle case argentine. Ma l´artista, che si chiama Giorgio Maria Griffa, di Biella, era arrivato in tempo e i suoi acquerelli erano esattamente intonati al fascino nebbioso e solitario della Patagonia marina. Griffa aveva dipinto anche alcuni fari e dunque doveva aver avuto come una premonizione. Senza alcuna piaggeria, questi nuovi acquerelli dei fari mi sono sembrati tra le cose migliori che ho visto negli ultimi anni. Quanto a Griffa ho parlato con lui solo al telefono: un tipo gentile, non molto loquace, un tipo solitario genere "via dalla pazza folla". Suo nonno era stato in Patagonia insieme con quello straordinario geografo che si chiamava De Agostini, mandato da don Bosco da quelle parti dopo aver sognato il salesiano che scalava il Cerro Torre o una montagna analoga. E da quelle parti, anni fa, avevo conosciuto un alpinista di Lecco che si era ritirato nel sud della Patagonia, vicino a un grande lago, e raccontava una strana storia. In un libro del De Agostini aveva trovato una fotografia che fissava l´immagine di una montagna completamente sconosciuta. Era andato in giro per anni mostrando la fotografia della montagna, e tutti dicevano che non esisteva. Finalmente un pescatore l´aveva riconosciuta, l´aveva portato attraverso il lago alla base della montagna e lui l´aveva scalata. Mi piacerebbe molto tornare in Patagonia con Griffa per vedere se questo montanaro di Lecco, che nel frattempo è morto, mi aveva raccontato una storia vera o se si era inventato tutto. Stefano Malatesta.