Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  maggio 12 Giovedì calendario

SCAPARRO

SCAPARRO Maurizio Roma 1932. Regista teatrale • «Figura di regista e operatore teatrale tra le più interessanti e attive in Italia e all’estero, inizia la sua attività nel campo dello spettacolo come critico teatrale. Poco più che ventenne, infatti, collabora a ”l’Avanti!” e, più tardi, a ”Maschere, rassegna mensile di vita del teatro” diretto da Giovanni Calendoli. , poi, direttore responsabile di ”Teatro Nuovo”, rivista fondata con Ghigo De Chiara e Lamberto Trezzini (1961). Nel 1963, è chiamato a dirigere il Teatro stabile di Bologna, poi, l’anno successivo, esordisce nella regia con Festa grande di aprile , novità di Franco Antonicelli, presentata al Teatro Municipale di Reggio Emilia. Avverso a ogni forma di spettacolarità eccessiva, fa dell’allusione e dell’illusione chiavi di lettura possibili dei propri spettacoli, contrassegnati da una tensione verso una teatralità riccamente utopica, cha abbia sempre al centro il destino dell’uomo. La consacrazione come regista avviene il 26 giugno 1965, al Festival dei due Mondi di Spoleto: presenta La venexiana di Anonimo del Cinquecento (ripresa nel 1985 in una nuova edizione), con, una straordinaria Laura Adani e le scene di Roberto Francia (suo abituale collaboratore). Infaticabile ed instancabile, firma oltre sessanta spettacoli, tra i quali si ricordano Sagra del Signore della nave di Pirandello (1967); Chicchignola di E. Petrolini (1969) con Mario Scaccia; Amleto di Shakespeare (1972) con Pino Micol, che sarà protagonista di molti spettacoli di S.; Cirano di Bergerac di Rostand (1977, 1985 e 1995); Don Chisciotte di M. Cervantes nella riduzione di R. Azcona e T. Kezich (1983, Festival di Spoleto, e successivamente in spagnolo nel 1992); Il fu Mattia Pascal (1986); Pulcinella, di Manlio Santanelli da un soggetto inedito di Roberto Rossellini, con Massimo Ranieri (1987); Vita di Galilei di Brecht (1988); Una delle ultime sere di carnovale di Goldoni (1989) e Memorie di Adriano di M. Yourcenar con Giorgio Albertazzi (1989 e 1994); Morte di un commesso viaggiatore di Miller (1997). Contemporaneamente al suo affermarsi come regista, conferma le sue capacità di organizzatore innovativo e acuto, dirigendo compagnie autonome (Teatro Indipendente, dal 1967 al 1969 e Teatro Popolare di Roma, 1975-79), Teatri Stabili (dopo Bologna, Bolzano dal 1969 al 1975; e Roma 1983-1990); e istituzioni pubbliche in Italia e in Europa, come la Biennale, durante la quale crea il celebre Carnevale del teatro (1980-82), il settore spettacolo dell’Expò di Siviglia nel 1992, o l’Ente teatrale italiano, di cui è commissario straordinario nel 1994-95. Nel 1997 assume la direzione del Teatro Eliseo di Roma» (Dizionario dello Spettacolo del ’900, a cura di Felice Cappa e Piero Gelli, Baldini&Castoldi 1998). «Se avessi dovuto scegliere un’altra parola, invece di Utopia, per definire il mio lavoro teatrale, la mia tensione verso un traguardo sognato, ammesso e non concesso che tutto si possa definire così sommariamente, avrei scelto la parola Festa. Ma le due condizioni non sono mai state, per me, troppo lontane. Il tratto di unione che ho cercato da sempre di stabilire fra loro, sta nel tentativo di comunicare, attraverso il Teatro, le ansie e le speranze dei nostri giorni. A più gente possibile, nel modo più umano possibile, ben sapendo le difficoltà crescenti del comunicare teatro in un mondo che tecnologicamente ha fatto passi enormi e spesso affascinanti. Ora, quando si parla di Festa, due associazioni tornano in mente: la prima è festa farina forca, la seconda è il momento liberatorio che va dal concetto carnascialesco di Bachtin a quello che può accadere (talvolta) attraverso la rappresentazione teatrale. E proprio di utopia teatrale vorrei parlare. Come conquistare un sogno e, attraverso il sogno, arrivare alla comunicazione, al piacere di stare assieme, un piacere, questo sì, politico e poetico insieme. Il concetto di utopia teatrale è, a mio avviso, un’espressione dell’Immaginario e, pertanto, l’enunciato di una necessità incompiuta. L’incompiutezza, lontana dal togliere senso all’utopia teatrale, le conferisce un carattere di riferimento ideale, segnando anche un inevitabile distacco dall’utopia politica, legata invece all’immaginabile e limitata comunque al raggiungimento di traguardi possibili . Del resto, ogni passo in avanti dell’umanità e la Storia prova che ne sono stati fatti tanti è stato, all’inizio, un’utopia. Utopia spesso punita dal Potere: tutte le utopie presuppongono un cambiamento, un sovvertimento dell’ordine stabilito, convertito, in molti casi, in norma di condotta, in principio morale per la collettività. Salvo ad essere spesso degradato da coloro che trasformano le utopie in dogma compiuto. La fragilità dell’utopia teatrale è spesso la sua forza; la forza del Potere è spesso il suo discredito. Quale, allora, il compito o il destino del nostro ”fare teatro” oggi? Io penso che, intanto, possa essere quello di tendere alla verità. Non semplice. Ricorda Foucault che ”la verità in teatro è l’illusione, cosa che è, in senso stretto, la follia”. Ma la verità è anche fatta di rischio, di coraggio vitalissimo del comunicare, di sofferenze, di ambiguità talvolta, persino di abiure. Penso a quanto è stata importante, per me, per il mio lavoro, l’esperienza del Galileo di Brecht. Ieri come oggi ”nuova scienza, nuova etica”. Il trattato sulle scienze nuove, scritto nelle notti chiare, di nascosto, per non essere scoperto, passa da Galileo all’ormai adulto suo allievo Andrea: ”Nascondi la verità sotto il mantello”. E c’è, in questo passaggio quasi furtivo della verità da una mano all’altra, anche il passaggio dall’effimero della nostra esistenza all’eternità della Scienza e dell’Arte. ”Perché lasciate l’Italia” dice la guardia confinaria ad Andrea. ”Perché sono uno scienziato”. E la guardia tranquillamente conclude: ”Allora, sotto la voce dell’espatrio, io scrivo: scienziato”» (’Il Messaggero” 11/5/2005).