Varie, 5 maggio 2005
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Cases Cesare
• Milano 24 marzo 1920, Firenze 27 luglio 2005. Germanista. Dopo la laurea, ha insegnato nelle Università di Pavia e Torino. È stato influente consulente dell’Einaudi, dove ha accolto Lukács, Benjamin, Horkheimer, Adorno. Ha collaborato con “L’Espresso”, “il manifesto”, “Quaderni piacentini”, “L’Indice”. Libri: Marxismo e neopositivismo (1958); Saggi e note di letteratura tedesca (1963); Thomas Mann (1983); Su Lukács (1985); Il testimone secondario (1985); Confessioni di un ottuagenario (2000). «L’arte dello scrittore sta nel rendere straordinario quello che non lo è». Scriveva così Cesare Cases all’editore Donzelli, inviandogli quel “malloppo” di centocinquanta pagine, che avrebbe poi costituito le sue Confessioni di un ottuagenario, omaggio nel titolo all’amato Ippolito Nievo, pubblicate nel 2000. Una “pseudointervista” a se stesso, come la definiva lui, che ripercorreva sia la storia personale che quella del paese attraverso i personaggi che ne avevano fatto la cultura: da Giulio Einaudi a Sebastiano Timpanaro, da Delio Cantimori a Italo Calvino. Per ognuno di loro, per ogni incontro, aveva parole di tenerezza o aggressione, ammirazione o ferocia. Nato a Milano nel 1920, vicino alla casa di Alessandro Manzoni, Cases venne assunto dalla Einaudi alla libreria Aldovrandi. I suoi compiti nella casa editrice cambiarono improvvisamente grazie alla conoscenza del tedesco e a Thomas Mann. Fu lo scrittore tedesco, infatti, contattato da Giulio Einaudi per scrivere una premessa alle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a chiedere come condizione che alcune delle lettere gli fossero tradotte da quel “collaboratore che padroneggia la lingua tedesca con perfezione umiliante”. Così, da semplice aiutante, il giovane ebreo che aveva studiato chimica in Svizzera al tempo delle leggi razziali, passò a essere consulente di letteratura tedesca e cardine dell’editore di Torino pubblicando titoli come: Marxismo e neopositivismo (1958), Saggi e note di letteratura tedesca (1963), Su Luckács. Vicende di un’interpretazione (1985), Il boom di Roscellino. Satire e polemiche (1985) e Patrie lettere (ristampato in edizione ampliata nel 1987). E curando, tra l’altro, le opere di Walter Benjamin. Collaboratore di riviste, da Quaderni piacentini all’“Europeo”, da Belfagor all’“Espresso”, tra il 1967 e il 1987, finì per fondare lui stesso nel 1984 - con Gian Giacomo Migone - l’Indice dei libri del mese, “una galleria di bellezze” [...] “Sono sempre scisso tra tentazioni estremistiche, di gran lunga prevalenti, perché non è chi non veda che il mondo ha bisogno di essere radicalmente riformato”, scriveva di se stesso. Lui che si era definito, dando il titolo a una sua raccolta d’interventi, Il testimone secondario. Uno di quelli che passano per caso, ma che poi si soffermano a cercare lo straordinario dove non sembra che ci sia» (Dario Pappalardo, “la Repubblica” 28/7/2005). «Cesare Cases era diventato un sopravvissuto di lusso. Sopravvissuto a un’epoca che lo aveva visto indiscusso protagonista. Sopravvissuto ai suoi efficacissimi studi di germanistica. Sopravvissuto alle polemiche che, tra gli anni sessanta e settanta, aveva suscitato e condotto in modo impareggiabile. “Si sopravvive quando hai maturato la sensazione che quello che puoi dire non ha più una direzione, né contribuisce a un cambiamento”, osservò con una vocetta sibilante [...] in occasione dei suoi ottant´anni. Non c’era nessuna malinconia nella constatazione che un’epoca fosse finita e una nuova, infinitamente meno entusiasmante, ne avesse usurpato il posto. C’era soltanto l’esatta misura con cui uno scienziato della parola stila il referto sul tempo che sta vivendo. Agli inizi dei suoi studi c’era stata una laurea in Chimica e solo successivamente egli volse lo sguardo altrove. Che un chimico potesse diventare un germanista non era un’impresa tanto ardua quanto quella di un germanista che apprendesse la sottile arte della deprecazione. Questo fu il miracolo: mettere la sua intelligenza corrosiva al servizio delle idee. Che queste prendessero la forma di una battaglia - oggi diremmo pomposamente guerra culturale - era quasi fatale, viste le sue origini marxiste. Fu all’inizio degli anni settanta che Cases polemizzò con Roberto Calasso autore allora di un saggio su Gottfried Benn. Per Cases fu l’occasione di fare i conti con l’Adelphi e alcuni suoi protagonisti: Colli innanzitutto, e poi Zolla e lo stesso Calasso. Scrisse per l’occasione “Gottfried Benn difeso contro un suo adoratore” (il saggio, apparso nei Quaderni Piacentini nel 1973, fu ripubblicato nella bellissima raccolta Il boom del Roscellino, edizioni Einaudi). Quell’articolo al vetriolo provocò una lunga risposta di Calasso (“Congiure del Tao” ripubblicato ne I 49 gradini), nella quale, pur respingendo le accuse e stigmatizzandone perfidamente certe scelte (come marxista intelligente Cases si sarebbe accorto troppo tardi di aver buttato il meglio dell’età moderna), ne riconosceva l’acume e la brillantezza. Era stato Bobi Bazlen, con equivalente peso ed ironia, a riconoscergli il merito “della prima voltità”, espressione che potrebbe far sorridere, ma nella quale si coglie la grande capacità del polemista Cases di arrivare prima e meglio di altri sulle battaglie culturali di quegli anni. Non so quanto in quell’elegante regolamento di conti che ci fu tra lui e l’Adelphi abbia pesato il sospetto che fosse stato proprio Cases il carnefice che aveva strozzato Nietzsche nella culla dell’Einaudi. Ancora oggi circola l’annosa vicenda legata alla proposta che Giorgio Colli fece alla casa editrice torinese di un’edizione critica delle opere di Nietzsche, stoppata da Cases, che mise l’embargo al filosofo tedesco. In realtà le cose andarono in modo diverso. In quei lontani anni cinquanta, Cases era solo un giovane collaboratore. “Fu Giulio Einaudi in persona e l’ala sinistra della casa editrice a respingere la proposta. Quanto a me, devo dire che fu solo la mia scarsa influenza a salvarmi dal destino di essere uno dei responsabili”, così ironicamente [...] raccontò quei fatti, senza naturalmente aggiungere se quella fu una decisione lungimirante o miope. Non credo che a Cases interessasse la letteratura per la letteratura, né una filosofia che fosse puro esercizio del pensiero. E sebbene egli avesse per lungo tempo volato con le pesanti ali del Lukács de La distruzione della ragione, è difficile non scorgere in quelle traiettorie di volo un’innata capacità di sorprendere. Se dovessimo definire chi è stato Cases ci troveremmo perciò nell’imbarazzo del dove e come collocarlo. Mossa fu la sua vita intellettuale. Fu un ortodosso e un trasgressivo? Un accademico e un militante? Un polemista e uno studioso? A qualunque famiglia egli abbia finto di appartenere, ce ne era sempre un’altra corrispondente pronta ad adottarlo. Difficile trovargli un abito mentale che gli andasse a pennello. Difficile ricomprenderlo sotto un unico segno. Cases fu un intellettuale che, per eccesso di interessi, sfuggiva alla riconoscibilità. Interessi che spesso andavano in direzione opposta: Lukács, come si è detto, fu l’adorato maestro. Ma nel suo carnet di ballo filosofico e letterario c’era anche Karl Kraus, che poco in comune aveva con il filosofo ungherese. Aveva letto con interesse Benjamin e Adorno senza disdegnare di gettare lo sguardo fra le pieghe reazionarie di Ernst Jünger, al quale in anni giovanili, aveva dedicato un saggio di grande intelligenza. Se si guarda con attenzione al suo percorso vedremmo affiorare una storia dell’Italia culturale in cui dominante è il segno della laicità e dell’impegno. A cominciare dal rapporto con Einaudi e poi Timpanaro [...], Cantimori, Calvino, Bollati, Garboli, Fortini. Di loro non è rimasto più nessuno. E anche l’Italia che avevano visto uscire dalla guerra non c’è più. Restano gli italiani. Un popolo, per Cases - e in questo seguiva la lezione del Machiavelli - senza religione, con il gusto della menzogna, del credere e del non credere. Quintessenza dello scetticismo. Categoria alla quale egli stesso si era iscritto da tempo. Eppure, non si può fare a meno di notare in lui una sorta di passione shakesperiana nel modo in cui, quasi con tenerezza, sopprimeva - intellettualmente beninteso - le sue vittime. Il che non deve indurre a immaginarlo chiuso in una sardonica supponenza. La scarsa indulgenza con cui a volte ha giudicato il suo operato intellettuale non fu falsa modestia, ma il desiderio di sottrarre alla parola “Io” la futilità che spesso lo avvolge. Per lui fu la condizione di sentirsi libero anche da se stesso» (Antonio Gnoli, “la Repubblica“ 28/7/2005). «La carriera di Cesare Cases [...] sommo germanista cui va stretta ogni qualifica specialistica ed ogni etichetta, comincia addirittura nel segno di Thomas Mann. Siamo nei primi anni ’50, il giovane professore alla Scuola ebraica della sua città, Milano, dove era nato nel 1920, ha già cominciato a collaborare con Einaudi, quando un’occasione redazionale lo mette in contatto con Mann, il quale scrive all’editore che quel suo collaboratore “padroneggia la lingua tedesca con perfezione umiliante”. Uno scopritore di talenti come Einaudi non poteva lasciarsi sfuggire una segnalazione così clamorosa, e arruolò Cases in redazione, giovandosi per anni di una competenza e affidabilità assolute, che si traducevano in una mostruosa capacità di lavoro, alternata all’insegnamento universitario che lo portò a Cagliari, Pavia e a Torino. Anni dopo Cases commenterà nelle sue gustose divagazioni autobiografiche pubblicate da Donzelli che “da Einaudi non sapevano che di Mann si diceva, come di Goethe, che l’esser lodato da lui equivaleva a un attestato di mediocrità”. Durante un viaggio in Germania, diventò amico di Italo Calvino. Ricordava: “Eravamo entrambi un po’ avari, entrambi arrendevoli, scarsamente litigiosi, di facile contentatura”. Basterebbe questo a dire lo humour leggendario di un uomo unico nel panorama culturale italiano del secondo Novecento, indispensabile agli amici come agli avversari. Era infatti ben lui a dire che molto si può imparare dai nemici. L’eleganza della sua imprevedibile scherma intellettuale era tale da strappare un sorriso d’ammirazione anche a chi non la pensava come lui. Se dovessi trovargli un interlocutore ideale, direi Voltaire. Cases ne avrebbe scelto sicuramente degli altri, magari Hoffmann o Novalis, ma insisto a dire che il suo charme così arguto, intessuto d’autoironia prima ancora che d’ironia, era francese e illuminista, anche se fondato su una granitica padronanza dei testi, da Goethe a Marx, dallo stesso Mann a Musil, da Benjamin a Brecht, e naturalmente ai francofortesi, Horkheimer e Adorno, proprio loro che avevano indicato nell’Illuminismo la fonte prima di tante distorsioni operate in nome della ragione. In Cases non c’era mai il sogghigno così fastidioso della superiorità intellettuale. Sapeva troppe cose e aveva degli uomini una conoscenza così precisa e disincantata per atteggiarsi a profeta o maestro, per non sapere che tutto si gioca su una fune sospesa sull’abisso. Mai allineato al gusto dominante, alle mode culturali, alle parole d’ordine, gli piaceva anzi giocare un ruolo ereticale del bastian contrario. Rifiutava invece quello dell’apocalittico, preferendo dirsi agnostico. Caso mai in tarda età si riconosceva qualche peccato d’ottimismo. Avvicinandosi il 2000, diceva di osservare con “allibito stupore” certi progetti di “rogresso sostenibile”, cari a Berlusconi come a D’Alema. Sentiva prossima l’estinzione della classe degli intellettuali, ma la registrava con una pacatezza quasi divertita. “Non bisognerà odiare i tedeschi, dopo”, aveva detto Leone Ginzburg poco prima di morire per mano dei nazisti. L’interesse di Cases per la germanistica nasce proprio dallo scatto di un bastian contrario. Traumatizzato dal fatto che proprio un Paese d’alta cultura avesse prodotto il mostro del nazismo, scelse la via più impervia: occuparsi della cultura che non aveva rispettato le attese e le speranze sue e dei suoi amici, e di cui lo affascinava la stretta commistione tra letteratura e filosofia. Costretto a rifugiarsi in Svizzera perché ebreo, durante la guerra aveva studiato chimica a Losanna e a Zurigo. Lì aveva imparato un tedesco “un po’ libresco - diceva - perché il tedesco autentico ha sempre una connotazione dialettale”. Riteneva che gli errori e gli orrori della Germania fossero l’espressione di una crisi epocale che riguardava tutti, non soltanto i tedeschi. Proprio perché avanzato, il Paese era diventato laboratorio di esperimenti mostruosi in cui venivano a galla vecchie tensioni, un’avanguardia di segno negativo che andava studiata, non demonizzata. Se la grande cultura tedesca era nata in piccoli centri come Weimar, il virus del nuovo potere stava annidato nel ventre di grandi città come Berlino, che guardavano con enorme interesse alla modernità americana, e ne copiavano gli aspetti peggiori, diceva Cases, che riscontrava al di là e al di qua dell’Atlantico le stesse solitudini, lo stesso disorientamento. Aveva cercato di utilizzare anche lui gli strumenti marxiani, ma lavorando anche sui dubbi, lo scetticismo di fondo. Una società senza classi è certo un miraggio, e tuttavia resta “un’idea motrice che può dare le ali all’umanità. Senza di essa rimangono soltanto rassegnazione e passività”. Aveva portato in Italia György Lukács, il teorico di quel “realismo critico”, che cercava di ricuperare la grande letteratura borghese in vista di un nuovo progetto sociale, il marxista che subiva il fascino di Thomas Mann e di Musil. Cases ne ammirava la fedeltà, perfino ingenua, a se stesso e alle sue utopie. Ricordava: “Eravamo tutti, anche se non spudoratamente, dei seguaci di Lukács, il quale diceva che il peggiore dei socialismi era comunque superiore al migliore dei capitalismi. Semplicemente vedevamo un’alternativa che in realtà non c’era. E non c’era perché il comunismo era fondato sulla menzogna, tanto quanto la civiltà cristiano-borghese”. Era capace di una serena equanimità verso le sue passioni “giovanili”. Per lui Adorno restava un grande, e Minima moralia, uno dei capolavori filosofici del Novecento. Anche Brecht, oggi dimenticato, gli sembrava grande scrittore e grande poeta, “nonostante i suoi limiti”. Dei contemporanei salvava due austriaci, Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann. Non amava Grass, o la generazione degli anni Sessanta. Possiamo congedarci almeno provvisoriamente da Cases adottando quel che lui diceva di Paul Celan: un artista che era sì riuscito a rappresentare “il disastro in cui viviamo”, ma aveva anche affermato il “nucleo solido” della poesia, la sua capacità di resistenza, qualcosa cui si può aggrappare anche nei momenti di sconforto. A questo “nucleo solido” della grande letteratura come strumento di conoscenza etica Cases è rimasto pacatamente fedele sino ai suoi ultimi giorni» (Ernesto Ferrero, “La Stampa” 28/7/2005). «L’ultima sua fatica era stata un’autobiografia, pubblicata nel 2000 per i tipi di Donzelli, il cui titolo suonava omaggio all’Ippolito Nievo letto da piccolo: Confessioni di un ottuagenario. Nato a Milano, il 24 marzo 1920, Cesare Cases infatti aveva appena compiuto gli ottant’anni. La citazione di Nievo metteva in luce la passione per l’italianistica di quello che era considerato il massimo germanista italiano. La vastità di interessi non poteva non stupire: da György Lukàcs a Giorgio Pasquali, fino ai gialli di Vasquez Montalban, il tutto frutto di una dedizione onnivora alla lettura, era difficile non vederlo con un libro per le mani. Questa abitudine intellettuale non aveva nulla di forzato: galleggiava sull’acqua dell’understatment e del divertissement, sospinta dalla brezza d’uno spirito caustico, in cui rieccheggiavano le scintille dell’amato Karl Kraus. Di buona famiglia ebraica, orfano di madre a un mese, cresciuto in un ambiente di donne, ricordava fra le letture da bambino Detti e aneddoti memorabili tratti dal Talmud (Le Monnier), “che non mi invogliò a leggere altro di quel trattato che costituiva la base di ogni insegnamento di dottrina ebraica”. Mandato a studiare prima a Losanna poi a Zurigo (dove conosce Franco Fortini, un’amicizia durata l’intera vita), si cimenta nella chimica, per compiacere il padre, ma “più si andava avanti e più io retrocedevo”. Così il chimico controvoglia approfitta dei rivolgimenti del ’43 per passare alle lezioni di lingue romanze, germanistica e filosofia. Capitando attraverso l’ebreo romeno Lucien Goldmann su Storia e coscienza di classe dell’allora sconosciuto Lukàcs, abbinato curiosamente al pedagogo svizzero Jean Piaget, su cui Cases si pronunciò con una tesina. Tornato a Milano, a guerra finita, fa lezione nella scuola ebraicamasoprattutto frequenta l’Ali (Agenzia letteraria italiana), fondata da Augusto Foà e continuata dal figlio Luciano, con la collaborazione di Erich Linder. È questa la scorciatoia che lo porta a cospetto di Giulio Einaudi, già allora personaggio mitico: “Mi guardò con i suoi freddi occhi azzurri e dichiarò che bisognava mettermi alla prova nella libreria milanese della galleria Manzoni gestita da suo cognato Aldrovandi”. Il salto di qualità con Thomas Mann, come racconta Ernesto Ferrero: da allora Cases diventa un “einaudiano”, nel senso dell’intellettuale curioso delle contraddizioni, e capace di portare a galla il lato oscuro delle cose. Nel 1951, intanto, si è iscritto al Pci. Compie viaggi nella Germania Orientale, stringe amicizia con Renato Solmi, è ribattezzato da Einaudi lo “scettico blu”, sull’onda della vecchia canzone anteguerra. Grazie agli uffici del famoso etnologo Enesto De Martino, riceve un incarico all’Università di Cagliari, dove si faceva “vita di guarnigione”, e dove sposa Anna Baggiani, un’allieva di De Martino, unione allietata dalla nascita di una figlia. A Cagliari rimane 6 anni: nel ’67 a un grande convegno su Gramsci, espone la tesi che le idee gramsciane fossero state realizzaste dal capitalismo. Giorgio Amendola si fa fotografare con lui sottobraccio: “Così sarai immortalato - gli dice - insieme a un riformista”. Quindi arrivano la stagione sessantottina dei Quaderni piacentini, con Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi e il non-piacentino Goffredo Fofi, la cattedra a Pavia per quattro anni, il trasferimento a Torino, alla Facoltà di Magistero di Guido Quazza, che impersonava la continuità fra Resistenza e Sessantotto, i soggiorni frequenti in terra tedesca, il folgorante successo delle satire e polemiche nel saggio einaudiano Il boom di Roscellino e, dopo il pensionamento, nel 1990, la direzione dell’Indice dei libri, succedendo al fondatore Gian Giacomo Migone. Lo “scettico blu”, proprio in virtù del suo scetticismo, non oscillava nelle prese di posizione politiche: strenuamente contrario alla Guerra del Golfo, rimbrottò il favorevole Vittorio Foa; e alla caduta dei regimi comunisti, lui, antistalinista per eccellenza, ne difese i significati ideali. Negli ultimi anni, si era trasferito a Firenze, nella casa di Magda Olivetti, “carissina compagna” [...] Nell’ultima riga della sua autobiografia si domandava se fosse il caso di aspettare il Messia. Risposta: “Io sì, da buon ebreo, ma dubito che arrivi finché sarò in vita”» (Alberto Papuzzi, “La Stampa” 28/7/2005). «Se oggi in Italia possiamo leggere Lukács, Benjamin, Horkheimer, Adorno lo dobbiamo anche a lui. Cesare Cases era tra le poche personalità eterodosse della nostra critica. Andava dalla germanistica alla letteratura italiana, da Manzoni ad Agatha Christie, da Schiller agli ultimi romanzi con la stessa scioltezza. Anzi, con la stessa acuminata ironia che spesso sfumava nella satira. Critico militante nel senso pieno del termine, Cases è stato uno dei maggiori saggisti della cultura contemporanea (i suoi saggi sono consegnati a libri come Patrie lettere e Il boom di Roscellino). Come i grandi saggisti, aveva licenza di spaziare anche nel metodo. E lo faceva senza la puzza sotto il naso degli accademici e senza toni da predicatore. Come tutti i grandi saggisti era capace di ricondurre le osservazioni particolari a panoramiche generali di carattere storico-sociologico. Anche quando affrontava argomenti teorico-politici, sapeva adottare una prosa narrativa piena di digressioni e di aneddoti personali (il suo Confessioni di un ottuagenario è un’autobiografia intellettuale di rara intensità). E il suo marxismo di fondo, sempre fortemente illuminista, non gli impediva di sfumare e di attenuare. Il tutto con una concisione che, come ha osservato Mengaldo, lo portava spesso verso l’aforisma (alla Kraus) e con un divertimento che più raramente lo spingeva alla parodia. Cases nacque a Milano, vicino alla casa del Manzoni, nel 1920 da famiglia ebraica (il padre avvocato civilista), fu scolaro al Parini, un’infanzia di villeggiature in Brianza (come Gadda), studente a Zurigo, rifugiato per le leggi razziali, cominciò alla facoltà di Chimica, ma ben prestò optò per la letteratura tedesca. Si laureò a Milano, in estetica con Antonio Banfi su Ernst Jünger. Dopo aver insegnato a Cagliari e a Pavia, a Torino Cases si avvicina alla casa editrice Einaudi, per la quale ha curato edizioni di Mann, Musil, Brecht, Benjamin, Dürrenmatt, Fontane e di cui sarà consulente tra i più ascoltati. Dopo essere stato garzone-commesso nella libreria di Aldrovandi, comincia all’Einaudi grazie a Mann, che, letta una sua traduzione, scrisse all’editore: “Lei dispone di un collaboratore che padroneggia la lingua tedesca con perfezione umiliante” (ma la postilla di Cases a molti anni di distanza fu: “Di Mann si diceva che l’esser lodato da lui equivaleva a un attestato di mediocrità”). Nel ’59 lascia la tessera del Pci. Poco dopo è, con Fortini, uno dei numi tutelari di Quaderni piacentini, “maestro” di stile e di pensiero per Bellocchio, Fofi e Grazia Cherchi. Il che non gli impedisce di prendere posizioni contro i suoi giovani amici, per esempio difendendo un “cretino” (niente meno che Primo Levi) o scrivendo contro La Storia della Morante, che considera “ideologicamente un disastro”. Diceva di sé: “Sono sempre scisso tra tentazioni estremistiche, di gran lunga prevalenti, perché non è che non veda che il mondo ha bisogno di essere radicalmente riformato, e controspinte controriformistiche, quando giudico l’impresa disperata. Non essendo cattolico, come lo era a suo modo Bertolt Brecht, non posso tenere i piedi in entrambe le staffe”. I suoi amici sono numerosi e li racconta nella sua autobiografia: il critico Teophil Spoerri, il filosofo Lucien Goldmann, Italo Calvino, Primo Levi, Giulio Einaudi (di cui stimava su tutto la capacità di cogliere il valore degli uomini), Renato Solmi, l’umile Daniele Ponchiroli, caporedattore einaudiano, “la creatura più amabile e soave che abbia espresso il mondo editoriale”. Anche Cases era un intellettuale “amabile”, ma non soave, perché la sua ironia era spesso fulminante, dietro quel suo sorriso sornione. Ma la sua passione era stare vicino ai giovani, ma senza mai salire in cattedra: al tavolo einaudiano del mercoledì, i suoi amici erano quelli dell’estrema sinistra, Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni. La voglia di militanza lo spinse negli anni Ottanta, dopo la collaborazione per Alfabeta, a fondare a Torino un settimanale di recensioni, “L’Indice”, di cui fu anche il direttore. Nostalgia, forse (ma per Cases è difficile parlare di nostalgia) per l’impegno agguerrito nei Quaderni piacentini. Con tutto il suo scetticismo e l’aria di non volersi prendere mai troppo sul serio, Cases non risparmiò mai le sue forze. Del resto [...] rispondendo a una domanda del questionario Proust che gli chiedeva il suo motto, rispose in latino: “Ricordati di osare sempre”. Con i giovani senza salire mai in cattedra» (Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera” 28/7/2005). «Una volta [...] Cesare Cases [...] disse che non amava il “Freund Hein”, come i tedeschi chiamano scherzosamente e scaramanticamente la morte, forse perché il culto della morte — Viva la muerte — era intrinseco a quella cultura della decadenza e dell’irrazionale in cui egli, come il suo amato Thomas Mann, vedeva sfociare e degradarsi la grande civiltà borghese, in un imbarbarimento del mondo che egli, come Mann, cercava di esorcizzare e di combattere in nome di un umanesimo illuminista e marxista. Però quella volta aggiunse che — nella febbrile smania di fare, produrre, parlare e organizzare che stava prendendo il mondo, soffocando ogni pausa e ogni riflessione — la morte riacquistava valore e significato, perché era un limite umano e ricordava che, dopo tutto, pure il perverso e frenetico attivismo che ci possiede come un ballo di San Vito non può durare, grazie a Dio, in eterno, e si placa anch’esso nell’eterno riposo implorato nella preghiera per i defunti. Cesare Cases è non solo un grande germanista, bensì anche un protagonista della cultura italiana [...] che — per ironia, intelligenza troppo acuta, randagia autosufficienza ebraica — ha scelto una posizione laterale, seppure ben profilata, nella parata permanente della società culturale. [...] La sua appartenenza a una famiglia ebraica — che non lo ha mai condizionato né ristretto in alcuna identità sottolineata e difensiva, ma è stata da lui vissuta semplicemente, affettuosamente e liberamente come una componente importante, ma non determinante — gli ha fatto conoscere presto, con le leggi razziali fasciste, il groviglio di barbarie che si annida nella nostra società, come rivela la sua splendida e frammentaria autobiografia. Marxista convinto e lucido, Cases ha vissuto con passione, e insieme con distacco, tutta l’avventura del marxismo italiano e delle forze che lottavano per un’altra Italia e un altro assetto del mondo, ma ha anche colto con straordinaria precocità l’involuzione e l’autonegazione del socialismo reale ed è stato uno dei primi a denunciare, in un memorabile saggio [...] l’anchilosata tirannide della Repubblica democratica tedesca, Paese — egli scriveva allora — in cui metà degli abitanti è occupata a spiare l’altra metà (e che dunque si capisce debba andare in malora). A Cases si deve la penetrazione della grande cultura e letteratura tedesca, soprattutto hegeliana e marxista, in Italia, ma anche la sua anticipata critica, come indicano tanti suoi eccellenti saggi su Lukács, Brecht, Benjamin e altri. In questo senso ha avuto un ruolo centrale nell’opera della casa editrice Einaudi, che oggi è costume sbeffeggiare, ma che è stata una o la colonna portante della cultura italiana per tanti decenni. Come ogni cultura realmente egemone e dominante, la casa editrice Einaudi ha avuto i suoi grandissimi meriti storici che nessun livore può diminuire, le sue colpe e prepotenze aristocratiche che vanno spregiudicatamente criticate, ma senza il risentimento plebeo di chi non si dà pace di essere stato escluso, in quei grandi anni, da quel cantiere in cui, fra tante geniali e ardite scoperte e alcuni anche pesanti errori, si creava la cultura italiana, così come, in un altro senso, ma in un’analoga simbiosi di meriti e chiusure, l’aveva creata La Critica di Benedetto Croce. Naturalmente è più facile riconoscere tutto questo per chi è stato a suo tempo fraternamente accolto, magari giovanissimo, in quei mercoledì einaudiani in cui nascevano tante cose, che non per chi, magari ingiustamente, è stato bocciato agli esami d’ammissione. Cases era un lievito di quegli incontri, di quel crogiuolo culturale. Se la sua visione del mondo era segnata dalle filosofie della totalità — Hegel, Marx — il suo acutissimo senso della crisi moderna, della sua stessa indole (sorniona, a volte pigra e assonnata, ma sempre vigile e fulminea nei giudizi) lo portava al frammento, al saggio breve piuttosto che al libro esaustivo (non ne ha scritti mai), all’introduzione piuttosto che alla monografia. C’era in lui una forte tensione intellettuale fra un marxismo classico, che voleva farsi superatore ma soprattutto erede della tradizione grande borghese e avversava dunque le stridule fratture trasgressive delle avanguardie, e una saltuaria fascinazione per quelle rotture culturali e politiche, che negavano tale tradizioni. Tutto ciò si riflette nei suoi saggi — di letteratura tedesca, di politica, di patrie lettere — come nelle oscillazioni delle sue simpatie politiche fra comunismo e sinistra extraparlamentare. La sua cultura più vera resta comunque quella classica, il sogno di saldare grande civiltà borghese e marxismo, come il suo Mann, di cui è stato un grande interprete. Il suo epistolario con Sebastiano Timpanaro, grande dialogo di due marxisti in cui Cases difende le ragioni della “decadenza”, è, come ha scritto Maria Fancelli, il documento di un’altra Italia, di una cultura oggi obsoleta, in cui, come in ogni vera cultura, sono in gioco le cose ultime. Beffardo e caustico, talora oltre la giusta misura, non era esente, nel suo sarcasmo, da alcune cadute in una sgradevole volgarità intellettuale, ma si riscattava in un’ironia illuminista che celava una pudica intensità di affetti. Fortini lo vedeva come un Mefistofele geniale e canzonatorio; a me ogni tanto sembrava uno di quegli ebrei orientali sballottati dalla storia, dovunque fuori posto e dovunque a casa nel mondo, perplessi fra il desiderio di cambiare quest’ultimo e una rassegnazione spinoziana alla necessità del tutto» (Claudio Magris, “Corriere della Sera” 28/7/2005).