varie, 4 maggio 2005
CUTOLO
CUTOLO Raffaele Ottaviano del Vesuvio (Napoli) 20 dicembre 1941. Camorrista. Il primo arresto risale al 27 febbraio 1963. Fu coinvolto in un litigio per una donna a Ottaviano del Vesuvio, suo paese natale. Fu proprio l’esperienza del carcere a inserirlo negli ambienti della criminalità organizzata. Nel giro di pochi anni arriva a guidare la Nuova camorra organizzata e a ingaggiare una sanguinosa guerra con il cartello dei clan riuniti sotto la guida di Michele Zaza. Cutolo evade più volte dal carcere. La sua fuga più clamorosa resta quella dal manicomio criminale di Aversa, il 5 febbraio del ’78. Riacciuffato, ordina omicidi e alleanze dalla cella. Fino al 1984 quando, trasferito all’Asinara, viene tagliato fuori dai contatti esterni (’Corriere della Sera” 14/7/2005). «[...] boss pluriomicida e pluriergastolano (otto), il fondatore e leader messianico della Nuova camorra organizzata. Considerato l’uomo più potente e carismatico nella storia della criminalità campana, un tempo a capo di un esercito di settemila uomini [...] ”[...] In pratica vivo dietro le sbarre dal 27 febbraio 1963. Nell’82 Pertini mi spedì nel carcere dell’Asinara, dove trascorsi i giorni più duri della mia vita. Da allora sono totalmente isolato e segregato. Mi hanno applicato il 41 bis [...] appena introdotto. Ma il carcere duro io lo facevo già da dieci anni. Non voglio farmi compatire, né altro. [...] Quasi tutta la mia vita l’ho passata in galera. Pago e continuerò a pagare gli errori che ho fatto, il mio passato scellerato. Però senza mai perdere la dignità. So che mi faranno morire in carcere. E a una fine così, preferisco la pena di morte [...] Mi sono pentito davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. [...] è morale fare arrestare cinquecento persone innocenti o colpevoli per andare a letto con la moglie o l’amante, pagati e protetti dallo Stato? Per me riabilitarsi significa essere coerente con me stesso, pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio. da anni che i magistrati provano a convincermi. Nel ’94 il procuratore Francesco Greco, per il quale ho molto rispetto, mi disse: starai in una villa con tua moglie. Avremmo potuto avere un figlio. Rifiutai. E sono orgoglioso di aver sempre resistito alla tentazione. Penso che la legge sui pentiti sia un’offesa alla gente onesta e alle famiglie delle vittime [...] Prima di sposare mia moglie la avvertii: pensaci bene, perché con me è come se fossi vedova a vita. Ci siamo dati un solo bacio in 23 anni e lei è ancora lì che mi aspetta. Vive nella speranza che un giorno, chissà quando, uscirò da qui. [...] Ogni mattina quando mi sveglio faccio il segno della croce e accompagno il funerale del mio cadavere. Passo il tempo pregando, leggendo, scrivendo. Soprattutto poesie, la mia passione. Ho dei problemi agli occhi e alle mani. Il carcere toglie la dignità e a lungo uccide anche l’intelligenza. Le misure previste dal 41 bis prevedono ispezioni corporali per i colloqui. Ti passa la voglia di ricevere anche tua moglie o gli avvocati [...] Quando mi sono sposato l’ho giurato sull’altare di Dio: basta con la mia vita passata. Io non rinnego niente di quello che ho fatto. Sono coerente con me stesso. Ho fatto del male, ho seminato odio, violenza, morte. E quindi devo sopportare tutto. Ma da molti anni ho chiuso con la camorra. Nel mio animo non ci sono sentimenti di vendetta e di odio. Ho perso un figlio (Roberto, ucciso in un agguato ad Abbiate Guazzone nel 1990, ndr), mio suocero, mio cognato, e tanta altra gente cui volevo bene. La camorra è stata una mia scelta, un ideale di vita. Ma è un progetto che è fallito. E per il quale sto ancora pagando. Nonostante sia stato io a salvare la vita a un uomo dello Stato, l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo” (sequestrato dalle Brigate Rosse a Torre del Greco il 27 aprile del 1981, e poi liberato - secondo l’ordinanza dei giudici - ”alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo a cui è stato chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione immediata di Cirillo», ndr ). [...] ”[...] Mentre era in corso il sequestro vennero da me, in carcere ad Ascoli Piceno, un sacco di persone: politici, agenti dei servizi segreti, mediatori. Un influente politico della Dc mi disse che dovevo intervenire con ogni mezzo per salvare la vita dell’assessore. Che in cambio avrei ottenuto il controllo di tutti gli appalti della Campania. Cirillo fu liberato [...] I soldi in carcere li usavo per comprare da mangiare e da vestire ai detenuti. Anche ad Alì Agca, l’attentatore del Papa. Ma il caso Cirillo, chissà perché segnò definitivamente il mio destino. Per ringraziamento mi hanno mandato ’in ritiro spirituale’. [...] I politici non sono molto diversi dai camorristi. Pensano al potere, al consenso, all’arricchimento. Ma dei bisogni della gente se ne fottono”. Votato? Mai. Né prima del carcere né dopo [...]”» (Paolo Berizzi, ”la Repubblica” 24/2/2006). «L’uomo che è stato il capo del più potente e sanguinario esercito di camorra che mai abbia combattuto sulla scena del crimine, il boss che costrinse tutti gli altri clan a unirsi in una forzata alleanza pur di fargli resistenza, il padrino che anche da dentro al carcere dettava ordini, omicidi, sequestri e anche grandi mediazioni [...] Gli hanno ucciso il figlio Roberto, che si era trasferito in Lombardia, e prima ancora il suocero. I rivali della Nuova Famiglia hanno massacrato tutti i suoi fedelissimi, chi è sfuggito alla morte è finito in manette e molti che pendevano dalle sue labbra hanno poi deciso di pentirsi. Lui, da molti anni, è sottoposto al regime di 41 bis. Non ha mai collaborato. Dal carcere di Ascoli Piceno, dove conobbe la Iacone, sorella di uno dei suoi affiliati, gestì la trattativa per la liberazione dell’assessore democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse. Quella vicenda, secondo Cutolo, segnò il punto più alto del suo potere: forse credette di avere in mano una carta importante, che a quel punto gli consentiva di dettare condizioni a uomini dello Stato. Invece, dopo averlo accontentato durante la trattativa, per lui iniziò l’esperienza del carcere duro. L’Asinara e altre fortezze lo tagliarono assolutamente fuori dal giro di rapporti che aveva con i suoi affiliati. Nemmeno la sorella Rosetta, che per suo conto ha agito per anni prima di finire anche lei in carcere, poteva più essere il braccio operativo all’esterno. Raffaele Cutolo era finito, come capocamorra. Restava un uomo che non ha mai voluto collaborare con la magistratura [...]» (Fulvio Bufi, ”Corriere della Sera” 14/7/2005).