Marcello De Cecco, La Repubblica, 03/05/2005, 3 maggio 2005
Storia delle guerre economiche tra Italia e Cina (De Cecco) L’Europa e concorrenza cinese, La Repubblica, 3 maggio 2005 «Oltre cento milioni di sesterzi l´India e i Seri e la Penisola Araba sottraggono al nostro impero: tanto costano il lusso e le donne»
Storia delle guerre economiche tra Italia e Cina (De Cecco) L’Europa e concorrenza cinese, La Repubblica, 3 maggio 2005 «Oltre cento milioni di sesterzi l´India e i Seri e la Penisola Araba sottraggono al nostro impero: tanto costano il lusso e le donne». Così Plinio nella sua Storia Naturale. Se si ricorda che i Seri sono i cinesi e che Plinio morì nella eruzione del Vesuvio del 79 d. C. si può capire quanto antica sia la preoccupazione europea con la bilancia dei pagamenti nei confronti del Medio e dell´Estremo Oriente. Solo per un paio di secoli abbiamo avuto superiorità manifatturiera e di materie prime nei confronti di quei paesi. Se si va a guardare il carico dei mille e mille vascelli affondati sulla rotta per l´Oriente si scopre che le merci a bordo sono solo orientali. Noi pagavamo in oro e argento, per più di duemila anni. E ogni tentativo di raddrizzare la situazione commerciale esportando merci verso l´Oriente si scontrava con lo scherno, talvolta persino l´incredulità, specialmente cinese, nei confronti delle nostre merci, per loro tanto primitive e grossolane. Così quel che accade oggi sembra a uno storico un ritorno del fiume del commercio nel suo alveo naturale, dopo un paio di secoli di temporanea eccezione. Plinio, tuttavia, non arrivava a predicare controlli, ostacoli e ritorsioni contro i beni di lusso provenienti dall´Oriente. La colpa stava nella domanda delle matrone per quelle sete che permettevano loro di «trasparire in pubblico» (che grande lingua, il latino), non nei costi delle medesime, prodotte in regime di monopolio, secondo una tecnologia che avremmo impiegato 1500 anni a capire e ancora più a lungo a riprodurre. Non è lo stesso oggi. Il flusso di ritorno consiste di merci copiate e a bassissimo costo. E dunque le mille invenzioni del protezionismo plurisecolare vengono invocate, dal contingentamento ai dazi, dalle ritorsioni alla certificazione di provenienza, alle quarantene obbligatorie per evitare la diffusione di malattie. Nell´invenzione di queste forme il genio dell´Occidente si è esercitato per mille anni almeno (benché, come sempre, spulciando i classici greci si trovino precursori interessanti, come Platone, fautore dello "stato commerciale chiuso" che Fichte tanto tempo dopo avrebbe rispolverato). Fluisce e rifluisce, la libertà degli scambi. Già gli astuti veneziani imponevano dazi, attorno al Trecento, bassi per le materie prime, e crescenti per i prodotti lavorati, a seconda del grado di finitura, per scoraggiare la concorrenza alle proprie manifatture senza penalizzare il costo delle materie prime occorrenti a produrle. Allo stesso tempo, insieme alle altre Repubbliche marinare italiane, usavano volentieri la spada per "aprire" paesi riluttanti ad accogliere le loro merci; precursori, come in tanto altro, anche nel credere che sia il commercio a seguire la bandiera e non viceversa. Una volta imposto con la forza, è possibile che il commercio ingentilisca i costumi, che faccia preferire gli scambi pacifici alla conquista. Ne erano certi Rousseau, Diderot, Voltaire e i loro seguaci in tutt´Europa, reagendo al pessimismo mercantilista che aveva imperversato per due secoli, chiudendo i mercati internazionali con la stessa decisione con la quale aveva aperto e integrato quelli interni alle nazioni europee. Il libero commercio è la prerogativa di chi si sente forte, politicamente e, ancor più, economicamente. Si addice dunque a chi ha conquistato la superiorità tecnologica. Dopo la sconfitta di Napoleone e del suo progetto di unificazione economica e politica dell´Europa continentale, gli inglesi, forti della propria rivoluzione industriale, si dedicarono con passione a portare il libero scambio in Europa, anche ricorrendo a metodi "persuasivi" nei confronti di paesi riottosi. Le teorie di Smith e Ricardo, tuttavia, non ce la fecero a convincere i tedeschi, che non capivano perché quel che era stato permesso agli inglesi in secoli precedenti, in fatto di protezione, non potesse essere applicato anche alle industrie nascenti in terra tedesca. Né convinsero gli americani, fautori del protezionismo ancor prima dei tedeschi. Si erano addirittura rivoltati contro la madrepatria per rivendicare la propria libertà fiscale, commerciale e industriale. Così, l´enorme crescita del commercio internazionale nell´Ottocento è avvenuta in parallelo con una ancor maggior crescita dell´industria moderna in paesi come Francia, Germania, Stati Uniti, Italia, Giappone all´insegna del più convinto protezionismo. Sembra un paradosso, ma è storia. A metà del Novecento, si poteva affermare che i dazi, nel mondo, fossero cresciuti ininterrottamente per più di due secoli. La coincidenza tra crescita dei dazi doganali, delle industrie nazionali e del commercio mondiale doveva però interrompersi bruscamente negli anni Trenta. La Prima guerra mondiale aveva ridotto la crescita della popolazione europea. Si aggiunsero le angustie delle bilance dei pagamenti di paesi che si erano dissanguati per combattersi l´un l´altro, mentre il Nuovo Mondo, in particolare gli Stati Uniti, concentravano tutto l´oro disponibile. La capacità industriale mondiale era frattanto molto aumentata durante la guerra. Erano condizioni di squilibrio molto forte, che condussero alla crisi di domanda mondiale dei primi anni Trenta. Si cercò quasi ovunque di combatterla con il dirigismo e il protezionismo imparati durante la guerra. Metodi di emergenza, che richiedevano un´enorme concentrazione del potere di decisione economica nelle mani dello Stato e di pochi cartelli di grandi produttori industriali e un potente protezionismo agricolo. Il commercio estero gestito sostituì quasi completamente quello libero. A partire dal 1945, il nuovo paese egemone, gli Stati Uniti, che temeva di restare fuori della rete degli scambi gestiti organizzata in Europa e che gli europei non ce la facessero con quei metodi a contrastare l´avanzata della Russia sovietica, ebbe l´intelligenza di mettere a disposizione del "mondo libero" il proprio mercato interno e le proprie riserve d´oro e di accettare una forte rivalutazione del dollaro. In cambio chiese il ripristino graduale del multilateralismo e del libero commercio. Rifiorirono gli scambi e, dopo duecento anni, cominciarono a scendere anche le barriere doganali. Non dappertutto: il commercio internazionale dei prodotti agricoli continuò a essere gestito dirigisticamente quasi ovunque, compresi gli Stati Uniti, talvolta con accordi soprannazionali come in Europa. Dalla prima crisi del petrolio, tuttavia, libertà degli scambi e multilateralismo hanno cominciato lentamente a declinare, vittime delle nuove difficoltà di bilancia dei pagamenti di molti paesi e del crollo del sistema di pagamenti internazionali che gli americani avevano imposto nel 1944 al resto del mondo. iniziata una nuova deriva protezionista, innanzitutto nei paesi sviluppati, della quale testimonia, ad esempio, l´Accordo sul commercio dei tessili, fatto per rallentare l´impatto della concorrenza dei paesi emergenti. Nuove barriere si sono create in questi decenni, come le leggi sui brevetti, sugli standard e sui diritti d´autore, che tendono a proteggere le nuove industrie dei paesi sviluppati. Oggi si brevettano persino pezzi di software e prodotti farmaceutici facilmente imitabili. La libera circolazione delle persone, che sembrava anch´essa destinata a prevalere gradualmente, ha subito una fermata decisa in anni recenti, e una ri-regolamentazione assai più restrittiva. Non ci limitiamo quindi a deprecare, come faceva Plinio. Forse ci avviamo a seguire i consigli di Platone. Marcello De Cecco