l, 1 maggio 2005
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KALNIETE Sandra. Nata a Togur (Russia) il 22 dicembre 1952. Politico. «[...] nata [...] nel villaggio di Togur, regione di Tomsk, in Siberia, dove i suoi futuri genitori, Ligita e Aivars, ancora adolescenti, erano stati deportati nel 1941 subito dopo la prima invasione sovietica dei Paesi baltici
KALNIETE Sandra. Nata a Togur (Russia) il 22 dicembre 1952. Politico. «[...] nata [...] nel villaggio di Togur, regione di Tomsk, in Siberia, dove i suoi futuri genitori, Ligita e Aivars, ancora adolescenti, erano stati deportati nel 1941 subito dopo la prima invasione sovietica dei Paesi baltici. La famiglia, formatasi nella deportazione, poté rientrare in Lettonia sono nel 1957. Queste esperienze sono descritte da Sandra Kalniete nel libro Con le scarpette da ballo nella neve siberiana [...]. Durante il periodo della Lettonia sovietica Sandra ha studiato storia dell’arte. Nel 1989 ha aderito al Fronte Popolare che agiva per l’indipendenza della Lettonia dall’Urss. Dopo la rinascita dello stato lettone, è stata ambasciatore all’Unesco e in Francia. Nel 2002 è stata nominata ministro degli esteri e nel 2004 è divenuta membro della Commissione Europea. [...] ”Sono stata ambasciatore in Francia e quando presi possesso di questo ufficio la cosa che mi colpì maggiormente fu quanto poco si conoscesse in questo paese della Lettonia e delle altre repubbliche baltiche. Questo era in parte comprensibile perché il Baltico per una cinquantina d’anni era stato come cancellato dalla carta spirituale d’Europa. Allora decisi che avrei scritto un libro che attraverso la mia storia personale raccontasse anche la storia del mio paese. E così ho incominciato a raccontare la storia del mio paese attraverso quella della mia famiglia. [...] Alla vigilia del 14 giugno 1941, la data della grande deportazione dei lèttoni, mia madre aveva ricevuto in regalo un paio di scarpette da ballo: essa aveva a quell’epoca 14 anni e mezzo, e per il giorno dopo era previsto il suo primo ballo. E quando vennero gli agenti dell’Nkvd ad arrestare lei e la sua famiglia, furono le sole calzature che poté portare con sé, e furono anche le sole scarpe che ebbe durante il primo anno di deportazione in Siberia. Queste scarpette rappresentano anche un simbolo di fragilità, di delicatezza, se vuole anche di civiltà. Esse sottolineano anche il contrasto con la brutalità delle condizioni in cui i deportati erano costretti a vivere in Siberia [...] noi, i tre popoli baltici, lettoni, estoni e lituani siamo profondamente traumatizzati dall’esperienza sovietica: non vi è infatti praticamente una sola famiglia nei nostri tre Paesi che non abbia avuto un parente più o meno prossimo tra le vittime della repressione sovietica. Vi sono diverse categorie di persone su cui si è abbattuta la repressione. Vi furono i deportati. Alcuni di loro sono sopravvissuti, come la mia famiglia, altri sono periti. Ci sono poi quelli che sono stati fucilati, i militari, funzionari dello stato ecc. Fra tutti si parla di una cifra che si aggira sulle 150.000 persone. [...] Non vi fu alcuna motivazione ufficiale. La famiglia di mia madre apparteneva al ceto medio, e questa fu la sola ragione per cui fu deportata. La maggior parte dei deportati appartenevano alle classi agiate, oppure erano degli intellettuali, ufficiali dell’esercito, dei quali due terzi furono fucilati. Insomma, da questo potete capire quale fosse il modo di pensare dei sovietici” [...] come reagiva la popolazione locale alla presenza di deportati dal Baltico? ”[...] le persone che si trovavano laggiù erano anch’esse in massima parte dei deportati: si trattava dei deportati degli anni ’30, delle vittime delle ’purghe’ staliniane. La loro situazione era ancora più tragica di quella di coloro che erano arrivati dopo la guerra. Essi erano stati abbandonati a se stessi in mezzo alla ’tajgà’ (la foresta siberiana), senza alcun mezzo di sostentamento. Coloro che riuscirono a sopravvivere si erano costruiti dei piccoli villaggi e così i lettoni, estoni e lituani deportati negli anni ’40 trovarono in qualche modo un rifugio, come mio padre e mia madre. Ma fra i deportati non c’era nulla da dividere, per vivere bisognava arrangiarsi” [...]» (Giovanni Bensi, ”Avvenire” 30/4/2005).