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 2005  aprile 27 Mercoledì calendario

Design e italian style, La Stampa, 27/04/2005 Due anni fa il designer Enzo Mari ha tenuto una conferenza in Giappone in cui ha descritto la morte imminente di ogni sogno di progetto

Design e italian style, La Stampa, 27/04/2005 Due anni fa il designer Enzo Mari ha tenuto una conferenza in Giappone in cui ha descritto la morte imminente di ogni sogno di progetto. Alla fine del suo pessimistico discorso gli si è avvicinato Okada San, presidente della Hida Sangyo, e gli ha chiesto di progettare per la sua fabbrica dei mobili di legno. La sua azienda si trova nel centro di una fittissima foresta di sugi, un tipo di cipresso che cresce in Giappone. Ce ne sono dieci milioni e stanno togliendo spazio ad altre essenze, per cui devono essere drasticamente tagliati. Purtroppo il sugi è un legno poco adatto alla fabbricazione di tavoli, sedie e armadi, poiché eccessivamente tenero e con troppi nodi. Ma la Hida ha messo a punto una tecnica che conferisce al legno una durezza maggiore e Okada San pensa che i nodi non siano poi così brutti per fare mobili. Mari si è messo al lavoro e in capo ad alcuni mesi ha portato in Giappone le sue prime idee e le ha confrontate con gli operai e i tecnici della fabbrica del signor Okada San. La sua concezione del design è quella di abbassare i costi di produzione senza far perdere qualità all’oggetto. Il risultato è stato esposto alla Triennale in una mostra aperta in occasione del Salone del Mobile di Milano e intitolata Enzo Mari e diecimilamilioni di alberi: sei sedie, tre tavoli, due poltroncine, due divani, due armadi, una specchiera-appendiabiti, due librerie, alcuni cubi contenitori e altri tavoli e sedute tradizionali giapponesi. Mari incarna perfettamente il design italiano contemporaneo, le sue aspirazioni, le sue difficoltà, i suoi limiti e insieme le sue riuscite. Il design rappresenta un prodotto di lusso che aspira, grazie alla grande produzione, ad essere alla portata di molti, se non di tutti. Quando Mari parla di qualità formale e qualità sociale, come fa nel pieghevole che accompagna la mostra, vuole indicare proprio questi due aspetti: oggetti di qualità a prezzi bassi, ma anche dotati di valori estetici riconoscibili e apprezzabili. Il problema non è di poco conto, visto che dietro il lavoro di un designer come Mari c’è la volontà di coniugare estetica e politica, utopia del gusto e utopia sociale. Come sottolinea nelle pagine finali di un suo recente libro Gabriella D’Amato, Storia del design, spesso l’alto prezzo dei prodotti di design ha finito per allontanare le persone orientandole verso prodotti che riecheggiano stili storici o valenze artigianali tradizionali. Così oggi si assiste all’avvento dell’utopia-Ikea, il grande supermercato dell’arredamento che, giocando sul gusto del design scandinavo, sul basso costo dei prodotti, ha generato una piccola rivoluzione nelle case degli italiani, in particolare in quelle delle giovani coppie, tanto da far dire ad alcuni sociologi che esiste una «generazione-Ikea» che ha decretato il tramonto dell’arredo rustico, del mobile tradizionale italiano, su cui si era modellato il gusto di tanti italiani. Gabriella D’Amato applaude polemicamente nelle ultime righe del suo libro alla vittoria del design poveristico del colosso svedese fondato da Igvar Kamprad nel 1943 come azienda di vendita per corrispondenza e diventato un grande divoratore della tradizione progettuale di Hennigsen, Wirkkala, Alvar Aalto e altri designer nordici. La D’Amato punta il dito sull’incapacità di far collimare prezzo e qualità sociale degli oggetti da parte del design italiano e internazionale, e a chi obietta che con l’Ikea il design è entrato per la porta secondaria, risponde: «tanto peggio per chi non ha saputo tenere aperta quella principale». Davvero le cose stanno così? In questi giorni è terminato il Salone del Mobile di Milano, con ogni probabilità l’occasione economica che suscita più interesse e attese nella capitale economica italiana, ben più della settimana della moda, per via dei discorsi culturali e dei valori simbolici che riguardano questo settore della nostra industria. Durante questo periodo una gran folla di giovani, proveniente da tutta Europa, visita la Fiera, ma anche le decine e decine di esposizioni distribuite in tutta la città. Perché tanto interesse? Perché il design, nonostante quello che scrive la studiosa di design, è un settore che è alla portata di molti, più dell’alta moda; oppure, perché il mondo degli oggetti sembra affascinare maggiormente e avere una durata maggiore rispetto al mondo degli abiti, effimero e volatile per definizione. Ma c’è anche un’altra ragione che è ben esposta in un libretto di interviste allestito da un gruppo di giovani studiosi: Maestri del design. Si tratta di alcune conversazioni con Achille Castiglioni, Magistretti, Mangiarotti, Mendini e Sottsass. I primi due, nati prima del 1921, spiegano molto bene ai loro interlocutori quello che è il segreto dell’Italian style, ovvero quello che ci è invidiato da tutto il mondo. La sua fortuna è basata su un rapporto stretto tra il designer e il produttore. A fare grande la produzione italiana di oggetti, mobili, lampade - che oggi alcuni sostengono in definitiva crisi - è stato il rapporto tra questi designer e i piccoli industriali della Brianza, del Varesotto, della Bassa padana. Certo, conta, come spiega Vico Magistretti, l’inventiva del singolo design, la sua curiosità, ma non basta. Gran parte degli autori che conversano nel libro sono architetti che per mancanza di lavoro, per curiosità o per spiccato interesse, si sono rivolti alla produzione di oggetti in piccole serie, trovando nelle fabbriche che circondano Milano i propri naturali referenti. Come nel caso della Hida e di Enzo Mari, sono state aziende come Cassina, Flou, Kartell, a chiedere ai progettisti milanesi di studiare oggetti per loro. Ma questo non è sufficiente. Nelle fabbrichette dei loro committenti i designer hanno infatti trovato operai e tecnici con cui perfezionare i loro progetti. Il design non è un lavoro solitario, bensì il risultato della collaborazione di più persone. Magistretti pronuncia un elogio del non-disegno: «Questo è il design, ovvero spiegarsi le cose: io non dirigo l’orchestra, ma disegno per terra con loro; e non realizzo un disegno bello pulito, quello non serve». In un appunto Magistretti, il quale ha progettato mobili e lampade che molti hanno in casa, spesso senza neppure saperlo - ecco cosa è il grande design: anonimo e bello insieme -, spiega cosa significa «fare design»: «parlare molto con chi lavora; porre molte domande (tecniche); pensare alle soluzioni più semplici; pensare all’abilità delle proprie mani (scarsa); pensare a tutto ciò che è più semplice e banale; destare l’originalità». Il libro di Gabriella D’Amato, come il libro di Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza, pongono il medesimo problema: come accordare nella produzione qualità e economicità, gusto e democrazia. Questo è il collo di bottiglia che si trova ad affrontare l’industria italiana e i suoi designer. Il Novecento ha proposto un’utopia progettuale figlia delle avanguardie storiche e del Bauhaus, cui si ispirano, in modo seppur differente, alcuni progettisti della generazione che ha iniziato a operare nell’immediato dopoguerra. Questo modello, anche politico, è andato in crisi, come si vede molto anche nelle interviste di Mendini e Sottsass, i quali rappresentano la generazione successiva, quella definita postmoderna. Ma la nuova generazione, quella post-postmoderna, la generazione dei designer-global, cosa pensa? Come si rapporta con questi problemi? Come accorda, se pensa di accordarli, gusto e prezzo degli oggetti? Tutte domande a cui non c’è ancora una risposta certa e univoca, ma decisive anche per capire almeno in parte il destino dell’Italian style. Marco Belpoliti