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 2005  aprile 17 Domenica calendario

Cinquant’anni di McDonald’s, Il giornale, 17/04/2005 Sfogliando gli annali di storia americana si legge che, nel 1955, la Casa Bianca ha votato a favore dell’annessione della Germania Ovest alla Nato

Cinquant’anni di McDonald’s, Il giornale, 17/04/2005 Sfogliando gli annali di storia americana si legge che, nel 1955, la Casa Bianca ha votato a favore dell’annessione della Germania Ovest alla Nato. Che Washington era rimasta a guardare mentre Perón era stato cacciato da un colpo di Stato, che la Cia aveva fatto progettare l’aereo spia U2, con cui sarebbero poi stati scoperti i missili sovietici di Cuba. Tennessee Williams aveva vinto il premio Pulitzer con La gatta sul tetto che scotta, milioni di cittadini Usa leggevano Buongiorno tristezza di François Sagan e, nel paesino di Des Moines, alle porte di Chicago, un rappresentante di frullatori aveva aperto il suo primo chiosco. Chiamato McDonald. Sul tettuccio Ray Croc aveva fatto installare due archi e lì aveva fatti dipingere d’oro per attirare gli automobilisti; poi, in cucina, aveva accesso la friggitrice. Era il 15 aprile e i primi americani avevano assaggiato, meravigliati, i suoi mitici hamburger. In tutto il9 mondo, la McDonald compie cinquant’anni: se sono esatti i calcoli della megacorporation, che oggi vanta come rivali solo la Microsoft e la Coca Cola, 50 milioni di persone in 30mila punti vendita nel giro di 24 ore si metteranno in fila per un Mac burger. Succede tutti i giorni, in tutto il mondo. Anche dove, fino a pochi anni fa, la politica sembrava non voler aprire le porte ai precetti dell’American life, in paesini in cui si viaggia a dorso di mulo o si mangia ancora con le bacchette o dove, in nome della buona cucina, un pezzo di carne tritata e surgelata fino a ieri era un insulto. L’inizio era avvenuto quasi per caso: Croc vendeva porta a porta i frullatori ed era rimasto colpito dal business di due fratelli scozzesi di San Bemardino, in California. Si chiamavano Dick e Mac: nel 1948 avevano inaugurato un drive-through per automobilisti frettolosi e l’avevano chiamato "Spedee, the hamburger man". Il business era salito allle stelle e Croc, raccogliendo tutti i suoi risparmi, aveva acquistato la franchise a una sola condizione, che il nome restasse. In tre anni vendette 100 milioni di hamburger. Nacque così il mito del fast food americano, in un 1955 in cui i giovani ascoltavano alla radio Rock around the clock di Bill Hailey and the Comets, in cui al cinema si andava a vedere Ventimila leghe sotto i mari e nei grandi magazzini si faceva incetta di quel nylon e quel poliestere con cui le casalinghe evitavano di stirare le camicie dei mariti. L’America voleva vivere sempre più in fretta: i ragazzi seguivano il preppie look, le ragazze dai ridicoli chignon uscivano dagli anni tristi della guerra vestendosi con gonne svolazzanti, scarpine a punta dette winkle pickers e tentavano di liberarsi dalla prigionia delle madri: meglio una scappata da McDonald’s che un pomeriggio in cucina. I giovani scoprivano il mondo attraverso i prismi della nuova Hollywood e la ribellione di James Dean, di Marlón Brando. Coniato un nuovo termine, teenager volevano crescere in fretta, frequentare localini con gli amici, mangiare sacchetti di patatine sui sellini di nuovi scooter. Fino ad allora, a 21 anni si pensava già a sposarsi, a fare figli, portare a casa uno stipendio fisso: ma c’era nell’aria un profumo dì rivoluzione e il fast food della McDonald’s ispirava una vita più veloce, nomade e ribelle. La formula era vincente: spendere poco e mangiare in fretta. Sarebbe diventato il motto della nuova famiglia - tipo a due stipendi, con le donne di carriera e i primi divorzi, con gli studenti che lavoravano ai banconi degli hamburger per pagarsi la retta universitaria. Ray Croc era un genio: aveva inventato una formula a cui nessuno ancora aveva pensato perché era troppo semplice, troppo banale. Eppure ci sono voluti 63 anni alla Xerox per guadagnare il primo miliardo di dollari; 46 alla Ibm. McDonald’s ci è arrivato dopo soli 22. Intanto gli americani avevano cominciato l’esodo in massa verso i sobborghi: proprio lì fece presa sulle mamme, offrendo piccoli parchi giochi dietro ai tavolini. Croc era un genio: aveva conosciuto Walt Disney da ragazzino, nel 1918: si erano subito piaciuti. Entrambi giocavano, con la magia. La sua la fece valere rivelando la ricetta segreta del Big Mac, ma solo nel 1974: una fantastica trovata pubblicitaria. Sì era nel pieno della Guerra fredda e McDonald’s, per l’Europa liberal, già simbolizzava l’imperialismo culturale di un’America che faceva invidia ma che, per essere alla moda, bisognava odiare. Quegli archi dorati erano entrati nel subconscio popolare: il sociologo Eric Schlosser, uno dei primi a esplorare il potere di persuasione delle multinazionali, nel saggio Fast food nation scrisse che per il 96% dei bambini il simbolo della McDonald’s era secondo in classifica, appena dopo Babbo Natale. "Quegli archi sono più riconosciuti del crocefisso", concluse. Poi gli americani hanno imparato a odiarlo: ad addossarvi sopra tutte le colpe di un paese che, per l’ingordigia delle multinazionali, era finito in Vietnam, che aveva eletto Nixon, che produceva abbastanza spazzatura (grazie anche alle scatolette di polistirolo della McDonald’s) da sommergere mezzo Sud America e distruggere le foreste tropicali. Con una conversione quasi religiosa, milioni di yankee hanno preteso di abbandonare i drive in lasciandoli ai poveri dei ghetti, ai nuovi immigranti ispanici, a chi non capiva che mangiare McDonald’s significava anche avvelenarsi. La new age era arrivata rabbiosa, anche sulla tavola made inUsa: vegetariani, radicalchic, anoressici, francofoni consideravano la multinazionale dell’hamburger alla stregua del lupo cattivo che faceva ingrassare i bambini. La McDonald’s, invece, già studiava il mondo con l’occhio astuto della globalizzazione: negli anni Ottanta trattava per il fast food di Mosca, anticipando la caduta del comunismo. Se nel 1994 una certa Kathleen Gilliam ha fatto notizia facendo causa per essersi scottata con un caffè, dieci anni dopo il documentario Supersize me ha...(manca un pezzo nell’articolo)......., ora gli archi dorati offrono anche piatti dietetici. Ma la gente chiede il Big Mac. Se ieri i dirigenti hanno dichiarato che nell’ultimo quadrimestre le vendite sono salite quasi del 7 per cento, stravolgendo le previsioni di Wall Street (soprattutto per quanto riguarda i mercati europeo, australiano e giapponese), domani a Chicago verrà inaugurato un super McDonald’s: immenso, avrà un roof garden e l’interno sarà arredato sulla falsa riga di una tipica casa americana di oggi. Cucina, sala da pranzo, salotto e sala della televisione. Ma il primato rimane a New York, che coi suoi 250 punti vendita possiede più McDonald’s di ogni altra città del mondo. Buffo: la metropoli che ha sempre vissuto nel futuro, che si dichiara regina di trend, nuove mode e ispirazioni politiche crede ancora nel sogno di un omino che ha cambiato la storia e che se n’è andato, anni fa, bisbigliando un segreto nell’orecchio della moglie: "Quando tocca a te, lascia tutto all’esercito della salvezza. Un miliardo e mezzo di dollari che in punto di morte, l’anno scorso, lei ha donato all’organizzazione benefica perché il mondo di domani, come quello del ’55, torni a credere nei sogni. Silvia Kramar