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 2005  aprile 29 Venerdì calendario

Gianni Rondolino, La Stampa 29/4/05. Quando nel 1964 diede alle stampe "Le due città", un romanzo in parte autobiografico che si svolge fra Torino e Roma, Mario Soldati aveva alle spalle una lunga carriera non solo di scrittore, ma anche di regista cinematografico

Gianni Rondolino, La Stampa 29/4/05. Quando nel 1964 diede alle stampe "Le due città", un romanzo in parte autobiografico che si svolge fra Torino e Roma, Mario Soldati aveva alle spalle una lunga carriera non solo di scrittore, ma anche di regista cinematografico. Anzi, per certi aspetti, grazie anche alla sua più recente attività televisiva, era più noto al grande pubblico come uomo di spettacolo. E dire che i suoi romanzi, più ancora i suoi racconti, tutti tenuti sul filo di uno stile classico e ironico a un tempo, discorsivo e formalmente raffinato, si erano ormai collocati nella lista dei migliori prodotti letterari di quegli anni. Che furono, per Soldati, molto intensi e variegati, occupandosi egli di molte cose simultaneamente, dalla letteratura al cinema, dal giornalismo alla televisione. E proprio la televisione, alla fine degli Anni ’50, lo attrasse in maniera tutt’altro che superficiale ed episodica, sebbene il suo contributo, determinante per il nuovo mezzo e le sue possibilità tecniche ed espressive, si limitasse a un paio di programmi. Che andarono in onda, il primo, Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini in dodici puntate, a partire dal 3 dicembre 1957; il secondo, Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno in sette puntate, realizzato in collaborazione con Cesare Zavattini, a partire dal 19 novembre 1960. Due programmi a modo loro innovatori, ed esemplari di una nuova televisione popolare basata su una profonda conoscenza del mezzo e una curiosa ricerca della realtà quotidiana attraverso una serie di interviste che Soldati sapeva fare col suo tono distaccato, a volte ironico, ma sempre rispettoso della personalità altrui. Come un viaggio, appunto, alla scoperta di un’Italia poco nota e di un popolo che si esprimeva negli atti normali della vita individuale e colletiva, come il mangiare o il leggere. D’altronde Soldati non era soltanto uno scrittore attento alla realtà circostante, un narratore di piccoli fatti, un descrittore d’ambienti, un creatore di personaggi curiosi: era anche un regista dallo sguardo acuto, che sapeva usare la macchina da presa con grande professionalità, collocando i suoi attori, ottimamente diretti, sullo sfondo di paesaggi, naturali o ricostruiti in teatro di posa, che ne evidenziavano i caratteri salienti. Fin dagli Anni ’30, quando era tornato dagli Stati Uniti, era entrato nel mondo del cinema, alla Cines, come sceneggiatore, e nel 1935 aveva scritto l’aureo libretto 24 ore in uno studio cinematografico, che ancor oggi si legge con interesse e diverimento: uno vero e proprio piccolo trattato di cinematografia per il lettore curioso. Poi era passato alla regia, nel 1938, con La principessa Tarakanova, girato in collaborazione con Fedor Ozep; infine aveva esordito come regista, da solo, con Dora Nelson nel 1939. Ma saranno i due film ch’egli trasse da due romanzi famosi di Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico e Malombra, realizzati nel 1941 e nel 1942, a imporlo all’attenzione del pubblico e della critica. E se il primo, delicato e raffinato adattamento di un romanzo (ch’egli non amava, anzi, come mi disse, forse addirittura odiava, perché era un esempio classico di quella letteratura che prediligeva la buona borghesia torinese, da cui egli proveniva, ma che mal tollerava), ne dimostrò le capacità tecniche e il fine gusto dell’immagine, del ritmo e della ricostruzione ambientale; il secondo, solo apparentemente simile all’altro, entrava più a fondo nella psicologia del personaggio, ne coglieva meglio le complessità psicologiche, ed aveva un che di «perverso», più vicino a certe corde del Soldati scrittore. Tanto che, quando ebbi occasione di parlarne entusiasticamente, mi telefonò per ringraziarmi, considerandolo anch’egli il suo miglior film. Ma la sua carriera cinematografica, che pure dopo la seconda guerra mondiale si andò involgarendo attraverso un nutrito numero di film di commissione, buttati giù alla svelta, per scopi evidentemente commerciali, non si concluse con quei due film (che rimangono tuttavia i suoi migliori). Nel 1946 ci diede una divertente e divertita interpretazione delle Miserie del signor Travet di Vittorio Bersezio, l’anno dopo affrontò Balzac con Eugenia Grandet, nel 1952 Moravia con La romana, e ancora nel 1959, con Policarpo, ufficiale di scrittura, tornò alla letteratura con buoni risultati spettacolari. Per tacere di Fuga in Francia, girato nel 1948, in piena stagione neorealista, di cui seppe utilizzare alcuni stilemi senza cadere nella nuova retorica populista. Insomma un regista di tutto rispetto, tradizionale e originale a un tempo, «letterario» e «cinematografico», nel senso che seppe coniugare con abilità le ragioni della letteratura (a cui attinse non pochi soggetti e temi) e quelle del cinema (di cui conosceva a menadito la tecnica). Di questo bagaglio Soldati si servì quando volle affrontare l’avventura televisiva: oserei dire con umiltà, come di fronte a un nuovo mezzo espressivo di cui voleva conoscere bene il funzionamento e le possibilità spettacolari. E i risultati furono eccellenti, tanto che varrebbe la pena riproporre oggi i suoi due programmi, che tra l’altro offrirebbero un quadro di grande interesse della società italiana della fine degli Anni ’50. Perché il suo mettersi in campo, affrontando direttamente la telecamera e conducendo la sua inchiesta come un giornalista militante, lo metteva nella condizione di cogliere dall’interno i dati della realtà e trasferirli, quasi senza intermediario, sul piccolo schermo televisivo. Una lezione di televisione che durò forse troppo poco. Perché Soldati, in cuor suo, si sentiva più scrittore che regista, più letterato che cineasta.